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«Sporadici contatti anche con persone pregiudicate».
È tutto qui l’oggetto della contesa che si è scatenata a margine del corteo per commemorare la morte di Elisa.
Il risultato di una serie di accertamenti volti a scavare nella vita di un calabrese illustre di Potenza, Michele Cannizzaro, alla ricerca di riscontri alle «enigmatiche», «maldestre», «incaute», e «inaffidabili» dichiarazioni di un agente di polizia, suffragate da un pentito che per questo avrebbe perso i benefici della collaborazione.
Allora si parlava proprio di una pista calabrese per la soluzione dell’omicidio dei coniugi Gianfredi, il 29 aprile del 1997, uno dei casi più oscuri della storia criminale di Potenza che è rimasto ancora irrisolto. E si faceva anche il nome del marito del pm che stava conducendo la caccia agli assassini, lo stesso che quattro anni prima aveva preso in mano il fascicolo sulla scomparsa di Elisa Claps, Felicia Genovese.
Ma con la fine della saga dei veleni del Palazzo di giustizia di Potenza, culminata con l’inchiesta “Toghe lucane”, sembrava un capitolo già archiviato. È bastato il discorso di Don Marcello Cozzi sui gradini della chiesa della Santissima Trinità per riaprire la discussione davanti agli obiettivi dei network di mezza Italia.
I fatti sono sempre quelli descritti in due paginette di una sentenza della Corte d’assise di Salerno del 14 febbraio del 2007, più due brevi informative a cavallo del millennio del maresciallo Aurelio Petrosino, un investigatore della Dia, che porta il nome del poliziotto più famoso al mondo, delegato dalla dottoressa Rosa Volpe, che il caso vuole che sia lo stesso magistrato che oggi si occupa delle indagini sull’omicidio di Elisa Claps.
Per la Corte l’esito degli accertamenti «non può certamente definirsi idoneo» a suffragare la tesi di un coinvolgimento di Michele Cannizzaro nell’omicidio Gianfredi, perchè «svolgendo la professione di medico può aver avuto per questo occasione di intrattenere contatti» anche con persone pregiudicate, «che sono risultati comunque sporadici» – è ripetuto nella sentenza – «anche se va riconosciuta indubbiamente l’esistenza di elementi che suscitano una certa inquietudine».
Va precisato che qui si tratta di una valutazione incidentale della Corte, che va al di fuori dell’oggetto del processo, ovvero il ruolo nella morte dei coniugi Gianfredi del collaboratore che per lo stesso fatto aveva accusato Cannizzaro. Perciò nemmeno sull’espressione di «inquietudine» utilizzata, o «gli sporadici contatti con persone pregiudicate» può dirsi costituito un qualsivoglia giudicato, e Cannizzaro ha buone ragioni per dire che non ha «mai parlato con esponenti della ‘ndragheta», tanto più che su queste circostanze non gli è mai stato concesso il diritto di replicare in udienza.
Il maresciallo Petrosino annota da una parte l’utenza utilizzata e dall’altra l’interlocutore e la data.
Il giorno di Natale del 1996 parte una chiamata di 165 secondi dal cellulare di Cannizzaro a una macelleria di Reggio Calabria di proprietà di un pregiudicato considerato legato al boss Mico Tripodo. Un’altra è di qualche mese prima, il 6 marzo dello stesso anno, e dura 136 secondi.
Non è chiaro chi abbia alzato la cornetta, ma Petrosino annota che due anni dopo quel pregiudicato sarebbe morto in un agguato in puro stampo mafioso, e aggiunge che non sono emersi legami di parentela con un omonimo latitante considerato molto vicino a alcuni esponenti della mala potentina, coinvolti nelle indagini per l’omicidio Gianfredi.
In una relazione degli ispettori del Ministero di giustizia a Potenza si trova traccia della difesa di Cannizzaro quanto a queste due chiamate: i certificati di ricovero di uno zio che avrebbe abitato poco distante, per cui il nipote si sarebbe interessato.
Poi ci sono nove telefonate all’utenza del vecchio proprietario di un appartamento di Reggio Calabria in coincidenza del suo acquisto da parte di Cannizzaro, e una sola di 3 secondi al fratello che a quei tempi era indagato per una serie di reati. Il maresciallo annota che anche il padre era rimasto ucciso in un agguato di stampo mafioso.
Infine due contatti, uno di 73 secondi e uno di 45. Il primo su un utenza cellulare intestata a un soggetto pregiudicato dato per vicino al boss Antonio Ierinò di Ardore, in provincia di Reggio Calabria, che è il paese dellamoglie di Cannizzaro, anche se alla data riportata in calce le ricariche risultano effettuate da un insospettabile di Cesena. E il secondo su un utenza intestata al fratello del primo, che non ha precedenti specifici, ma «si ritiene – scrive Petrosino – che possa essere contiguo alle cosche della locride».
Per non lasciare nulla di intentato il maresciallo e la dottoressa Volpe hanno deciso di interrogare Ierinò a riguardo, e dal verbale risulta che il boss pur facendo confusione con il nome di Cannizzaro si sia ricordato di essersi interessato dieci anni prima all’acquisto di una villa di sua proprietà.
C’è un’ultima telefonata di 108 secondi del 20 maggio del 1999 con un consigliere del comune di Calanna, già segnalato sette anni prima dai carabinieri di Laganadi, mentre si intratteneva alla sua presenza nella proprietà della famiglia Cannizzaro con un pregiudicato del clan Greco.
Per il resto nei tabulati di quasi dieci anni c’è un contatto con un truffatore, uno che emetteva assegni a vuoto, uno che deteneva illegalmente delle armi, e un elettricista con precedenti per minaccia aggravata e calunnia.
Petrosino annota tutto. Poi passa la parola al Tribunale di Salerno.
Leo Amato

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