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I cinque VioladiMarte, al debutto con “La sindrome dei panda” (Mk Records), si presentano come una sorta di super-gruppo calabro. Sono tutti coinvolti, in passato o ancora adesso, in esperienze corpose. Il leader e vocalist Joe Santelli fu già nei Tears and Rage, come pure Paolo Chiaia (piano Fender, Hammond e sintetizzatore); Stefano Amato (violoncello e chitarra) è in comproprietà con la Brunori Sas, Marco Verteramo (basso) ha trascorsi nei Konsentia; infine, Maurizio Mirabelli è anche il versatile batterista di Spasulati Band e Amanita Jazz.

La miscela è stata messa a punto con immediata maturità dai VioladiMarte. Maturità nel senso di compiutezza di uno stile preciso, già riconoscibile. Miscela, dunque, fatta di rock duro, orientato in senso fortemente giovanilistico, con qualche nostalgia anni Settanta, un tenebroso e iper-melodico sapore post-grunge, un approccio che ci porta dalle parti dei primi Radiohead. La band cosentina sta ricevendo buoni riscontri, e infatti non mancano certo pregi al debutto.

Attorno a queste melodie assai pronunciate, sono costruiti suoni psycho-rock, con rarefazioni ingannevoli che preparano il terreno alle esplosioni. Muri di suono elettrico, crudeli e fiammeggianti. Come parentele italiane, diciamo che i VioladiMarte si situano in un’area a ideale metà strada tra i Verdena e i Negramaro, a seconda che a prevalere sia, di volta in volta, una vena più indie o più pop. I testi sono amaramente urlati a squarciagola da Santelli (al quale, per inciso, gioverebbe la rinuncia a un certo manierismo per esaltare al meglio le doti vocali). Parlano di aridità e dolore, del freddo dentro, di silenzi, illusioni e terrore, e di preghiere che “vanno in fuoco”. Nel male di vivere dei VioladiMarte l’obiettivo massimo che si possa raggiungere è la “paragioia”. La sindrome a cui è dedicato il titolo dell’album si riferisce al comportamento del panda, animale disposto all’estinzione, pur di non adeguarsi a norme sociali sgradevoli e inaccettabili. La poetica di Santelli è volta dunque al recupero di un’intima ecologia delle relazioni, all’autenticità dell’esistenza, alla riappropriazione delle emozioni.

Compatta e granitica la grana sonora, certe soluzioni virano verso il drammatico e persino verso il melodrammatico (attenzione all’eccesso di enfasi, che porta tutto un po’ sopra le righe): chissà quanto sono consumati i (non molti) dischi di Jeff Buckley! Non vengono neanche rinnegate alcune magniloquenti derive, debitrici all’antico progressive. Una garanzia il missaggio affidato a Daniele Grasso, il patron della Dcave, dietro le quinti già con Afterhours, John Parish e molti altri.

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