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ROMA – Faccio solo umilmente notare che quanto ho denunciato da alcuni anni – abuso di una retorica vuota e ipocrita, utilizzo di un linguaggio falso e inconsistente, politiche in bilico sul senso d’irrealtà, arroganze oligarchiche, ecc. – era tremendamente reale. Quando la politica umilia il linguaggio – la sua verità, la sua luce, la sua umile zoppia – è inevitabile la caduta, la fine indecorosa. Denunciavo, inascoltato, la vacua inconsistenza linguistica di un Roberto Speranza, offensiva anzitutto perché faceva passare questo messaggio, ovvero che le parole non servono a niente, perché l’unica cosa che utile è tenere unito il partito in nome del Potere. Ho sempre disprezzato questo cinismo arrivista, e la cronaca, oggi, mi dà ragione: ecco infatti a cosa ha portato l’abuso di parole vacue come “straordinario”, “tempo nuovo”, “asticella”, “responsabilità”, ecc. nel mentre un’oligarchia assai arrogante, dopo essersi presa la Basilicata, ha pensato di prendersi anche l’Italia. 
Non è andata così, e a deciderlo sono stati i cittadini con il voto. Ai giovani lucani dico ancora una volta che non basta mettersi sotto padrone con ubbidienza per fare strada. Per fare strada duratura, al contrario, ci vuole cultura, studio, inquietudine, umiltà, furore, verità e, soprattutto, libertà. Non cinismo, non arroganza, non arrivismo, non finzione, non servilismo. I nodi sono venuti al pettine, il principale del quale è l’ipocrisia di chi ripete formulette orecchiate alla maniera dei pappagalli mentre poi, nel chiuso delle stanze, ha come unica stella polare il Potere, il suo trionfo. Non esiste nessuna verità politica senza una verità linguistica articolata, profonda, pensosa, generosa. Certo, altri padroni arriveranno e altri servi serviranno, ma per intanto le prime maschere sono state strappate. La storia culturale, sociale, politica di Lucania merita altri spessori, altre inquiete verità. Per questo, vanamente, ho scritto in tutti questi anni, ovvero per rivendicare lo spessore di una storia umiliata e offesa. Il problema non è il Pd in sé, ma le parole vacue e ipocrite di dirigenti come Roberto Speranza, che per me rappresenta la negazione assoluta di qualsiasi libertà coniugata con la cultura. 
Ora siamo a un grado zero, e mi auguro che non prevalga la sete di nuovi padroni sotto cui accucciarsi pur di non affrontare il mare aperto e avventuroso di una politica grande, sia pure rischiosa. Una stagione è finita e, come avevo previsto, questo suicidio è avvenuto con il cappio ben annodato di una retorica offensiva e arrogante, vacua e inconsistente. Le parole sono importanti, perché sono la voce dell’anima, il suono dei pensieri. 
Se sotto le parole non c’è nulla, prima o poi questo diventa evidente a tutti. Imprudente, al contrario, è stato scambiare via Pretoria con via del Corso. E non basterà per salvarsi attendere se a salire al potere saranno “amici” o capi vari come Letta, D’Alema, Amato, Barca o Pittella ai quali inoltrare la richiesta di asilo politico. Al contrario, in futuro serviranno parole difficili e vere, e una disperata vitalità. Senza umiltà e senza disperazione cadranno uno per volta, a costo di sfidare i morsi del vuoto politico, che non è vero che in politica si riempie sempre.

 

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