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In questi giorni funerei in cui mi rimbalzano, come un “memento mori” solo analisi e controanalisi sulla crisi dell’industria dell’informazione, mi arriva il bel libro di Alessandro Basso, “Premiata drogheria D’Ascoli”. L’affetto che mi lega alla famiglia di don Ettore aggiunge calore al piacere di avere tra le mani (proprio così, il piacere tattile di toccare la pregiatissima carta utilizzata dalle Arti grafiche Salerno) un volume che racconta un’epoca attraverso la storia del commendatore D’Ascoli. Un giornalista, il mitico corrispondente di Pontecagnano, un signore perbene che nel retrobottega del suo negozio curatissimo in corso Umberto aveva aperto la sua personalissima redazione “spicciando” clienti al bancone e accogliendo informatori dietro la porta, imbustando pregiatissime caramelle e pezzi da mandare fuori sacco.

 

Oggi che la dottrina sui futuri massimi sistemi dell’informazione ci spiega che il mondo va verso l’informazione iperlocale, questo libro rende omaggio a un giornalista che accompagnava i pezzi alle fotografie, prima che la rigida organizzazione delle redazioni a venire ne scomponessero l’attribuzione di competenza (salvo, oggi, a ritornare all’antico), e – soprattutto – con precisissime didascalie che rendevano vere le stagioni, le cariche, gli eventi.

 

Un giornalismo di precisione che si sarebbe di lì a poco imbastardito, con l’avvento di foto simbolo, furti d’archivio irrispettosi dei tempi. Così ci saremmo trovati ad illustrare pezzi estivi con signori in cappotto.

 

Don Ettore D’Ascoli fu anche un politico, un democristiano che ebbe il coraggio (ma anche il fiuto) di mettersi contro l’ala potente della sua città, puntando su quella corrente Dc che sarebbe diventata egemone con l’avvento di Ciriaco De Mita. L’epistolario che oggi i figli Peppino e Grazia stanno sistemando insieme al materiale d’archivio di ogni tipo degno di una fondazione racconta l’epoca in cui fare politica, pur nelle relazioni di potere che accompagnavano favori e raccomandazioni, significava progettare e offrire soluzioni. Era l’Italia che aveva bisogno di ponti, strade, casse mutue, sostegno alla ruralità.

 

La militanza politica di don Ettore non compromise l’autorevolezza e la credibilità del giornalista. Il quale fu, a suo modo, un sovversivo, un borghese sovversivo, perchè per il senso di lealtà e di amicizia verso un gruppo, una comunità, diremmo oggi, fu pronto a cambiare la destinazione dei suoi fuori sacco. Dopo anni al potente Mattino (tra l’altro scrisse per l’Avvenire dal 1973 al 1978) scelse la strada più in salita ma sicuramente più esaltante dei nuovi giornali che avrebbero spezzato per sempre in Campania il monopolio del giornale del Banco di Napoli. Passò così con noi giovanissimi cronisti al Giornale di Napoli, al Roma  e poi “Cronache” e “Il salernitano”. Mai conservatore o nostalgico, un entusiasta che aveva- questo sì – memoria e capacità di racconto. Pontecagnano e tutta la comunità salernitana gli deve molto. Nelle redazioni di oggi alla ricerca di una bussola don Ettore non avrebbe sfigurato.

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