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De Ruggieri nei panni di don Marcello Cozzi in “Per Elisa”

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L’intervista all’attore materano Carlo De Ruggieri che nella serie “Per Elisa, il caso Claps” interpreta don Cozzi

Legare l’interpretazione al volto, per un attore, può essere una sfida non sempre vinta. Carlo De Ruggieri, invece, ha reso i suoi occhi sporgenti, l’espressione ingenuamente inconsapevole, la voce incerta, tratti ormai inconfondibili dei suoi personaggi.

Il risultato viene molto probabilmente dagli anni di teatro e cinema, oggi trasferiti anche in tv dove è ormai personaggio inconfondibile di serie come “Imma Tataranni – sostituto procuratore”. Novello Buster Keaton, l’attore materano appartiene alla generazione che ama lavorare anche fisicamente sui personaggi in modo da farli diventare ‘maschere’ ma mai ‘macchiette’.

Per Carlo essere nato a Matera vuol dire portare con sé anche alcune caratteristiche che appartengono al dna di chi vive in una delle città più antiche del mondo ma anche di chi è consapevole che il sud è valore aggiunto in termini di personalità e forza civile.

Lo dimostra il ruolo che interpreta nella serie “Per Elisa – il caso Claps” in onda in queste settimane su Raiuno, ma anche la lunga storia professionale fra teatro e cinema di straordinario valore.

Nella fiction sul caso più controverso della storia della Basilicata, lei interpreta don Marcello Cozzi. Un personaggio contemporaneo e che ha svolto un ruolo importante nell’intera vicenda. Come lo ha affrontato?

«Per la prima volta ho interpretato una persona che esiste realmente e per questo ho sentito l’esigenza di incontrarlo, di parlare con lui non solo per riascoltare dalla sua voce questa triste vicenda, ma anche per assorbire il suo modo di essere e il suo punto di vista che è stato molto importante.

Ci sono aspetti particolari, legati alla sua figura e al fatto che sia una persona che non si tira indietro di fronte alle responsabilità che la vita gli mette davanti. Ha affrontato una vicenda in cui ha assunto una posizione che, all’inizio, lui stesso descrive come minoritaria rispetto alla maggior parte della comunità potentina. Poi è stato coinvolto anche come prete che si è ritrovato di fronte a una vicenda che in qualche modo lo ha messo in una posizione particolare, rispetto ad altre figure che fanno parte della Chiesa, il mondo che ha scelto come suo».

Sul set, da più parti, è stato sottolineato il clima che si era creato anche all’interno del cast. Un’atmosfera emotivamente forte anche perché la serie è stata girata proprio a Potenza, la città in cui sono avvenuti i fatti. La avvertiva anche lei?

«La temperatura emotiva di tutte le scene era molto alta perché è una vicenda che tocca profondamente. La storia è raccontata con grande accuratezza e interpretata da un cast di alto livello. Il progetto ha contato sull’approvazione della famiglia Claps, elemento che ha contribuito a creare questo aspetto, insieme alla qualità della scrittura».

I risultati si sono visti con gli ascolti della prima parte della serie andata in onda martedì scorso.

«Gli ascolti hanno premiato lo sforzo che è stato fatto. Si tratta di una storia che per molte ragioni è importante raccontare e che per molti versi resta ancora aperta».

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Una esperienza completamente diversa da quella affrontata con il personaggio dell’anatomopatologo Taccardi ormai personaggio celebre di ‘Imma Tataranni, sostituto procuratore’. Come si è preparato, in quel caso per una personalità a tratti silenziosa ma molto particolare?

«Sono stato supportato anche in questo caso da un livello di scrittura e da una accuratezza nella regia che hanno facilitato il compito di un attore. Per questo personaggio ho cercato di capire bene la professione di Taccardi e poi c’erano caratteristiche già molto chiare nella storia rispetto al suo modo di agire e al suo rapporto con la Tataranni, che è conflittuale e in cui non si dimostra succube del carattere forte del sostituto procuratore».

Televisione e cinema dimostrano che da tempo Matera è meta preferita dalle produzioni di tutto il mondo. C’è qualcosa che andrebbe ancora migliorata o, invece, la città e la Basilicata si sono già ritagliate uno spazio importante?

«Matera è storicamente un luogo importante da questo punto di vista. Nell’ultimo anno mi sembra che si sia riattivata in modo assiduo la presenza di set a in città e nel resto della regione. Credo che per l’appeal che stanno acquisendo, sia importante puntare su questa attenzione per creare centri di formazione, incrementando professionalità che si stanno formando per cercare di mettere in moto attività che consentano di avere effetto sui giovani per farli rimanere a svolgere professioni che hanno sognato di fare, non necessariamente andando fuori dai confini regionali e comunque avendo la possibilità di tornare. Quando sono rientrato per girare la prima stagione di ‘Imma Tataranni’ ero intimamente felice di poter svolgere il mestiere che ho scelto nella mia città».

Per un attore, cosa vuol dire oggi affrontare nuovi strumenti di diffusione come le piattaforme che consentono un accesso diverso alle produzioni?

«Viviamo una trasformazione storica nella metodologia di fruizione dei contenuti audiovisivi e questo ha provocato alcuni effetti, aggravando la crisi nel cinema. Credo che, come il teatro alla fine del Covid ha dimostrato di avere una ripresa istantanea per un modo che non può prescindere dalla presenza fisica dello spettatore, anche il cinema possa contare su questa importante risorsa. Una cosa è guardare un film a casa o su uno smartphone, diverso è invece farlo in una sala cinematografica con un coinvolgimento che è sicuramente più forte. Penso che questa esigenza, prima o poi emergerà di nuovo. Non siamo fatti per restare fra quattro mura e il cinema ha una funzione sociale».

Nella sua storia professionale, al cinema, si leggono nomi come i fratelli Taviani, Alex Infascelli, Silvio Soldini, Ettore Scola e Woody Allen. Esperienze su set che sono legate alla storia. Cosa hanno significato per lei?

«Woody Allen, quando ero ragazzino, era il mio mito. Il mio piccolo ruolo in ‘To rome with love’ comunque mi ha dato una grande emozione: sentire la sua voce che dà il ciak…. non lo avrei mai creduto possibile. L’esperienza con i fratelli Taviani, vuol dire trovarsi su set nei quali subito ti senti in un’altra dimensione, respiri la magia del cinema. Un incontro che porto nel cuore è quello con Ettore Scola con cui ho lavorato in ‘Che strano chiamarsi Federico’, il racconto della sua amicizia con Fellini. E’ stata una bellissima settimana di riprese,nel teatro 5 ovvero la ‘casa’ del regista. Con Scola si è creato un rapporto di grande affetto come con le sue figlie. Sentire la sua risata, a teatro, dove era venuto a vedermi, è un ricordo che riporto appuntato al petto come una medaglia».

E il rapporto con il teatro?

«E’ un luogo imprescindibile nel quale tornare, una energia e una forza che il set non riesce a dare. E’ come se puntualmente, si debba avere questa dose che funziona come un ricostituente, una vitamina».

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