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OGGI sarebbe stato il 95esimo compleanno di Emilio Colombo. Non so immaginare con che animo avrebbe affrontato, lui così schivo verso le occasioni celebrative della sua avventura politica, il dibattito sul Diario di una lunga stagione. Non è perciò un caso che venga presentato oggi a Matera il volume del “Mulino” che raccoglie l’articolata conversazione nella quale Emilio Colombo ha riversato memorie, opinioni e riflessi della lunga traversata nella vita italiana e internazionale.

Ho avuto la fortuna, cooperando alla messa a punto delle repliche alle domande proposte da Arrigo Levi, di ripercorrere con Giampaolo D’Andrea, Raffaele Garramone e Vito D’Adamo le sequenze di una vita straordinaria totalmente immersa nella realtà di un’Italia che sortiva dalla guerra, tesseva la trama della ricostruzione, scriveva la sua Carta fondamentale e si avviava a vivere le atmosfere e le sfide di una democrazia difficile e incompiuta scoprendo il valore della politica come impegno civile, come orizzonte etico e come esercizio della libertà.

Ne parlerà Marco Follini, acuto distillatore dello spirito democristiano, denso perlustratore dell’oltre, dell’incompiuto o del non detto che separa la politica dalle crudeli repliche della storia nel suo divagare fra ragione e coscienza, fra Machiavelli e Shakespeare, Pio Mastrobuoni, giornalista esperto di orizzonti e scenari internazionali da Colombo a lungo frequentati e con noi spesso condivisi, Gianfranco Viesti, cultore intelligente ed omeopatico di un meridionalismo del realismo e della responsabilità e Raffaele Nigro, trasognato narratore di quella trama che vuole il Sud terra di incontri e di scambi, di libertà e di contaminazioni, ponte fra Sud ed Oriente.

Ma occupiamoci del libro che parla dell’avventura di un grande protagonista di un’Italia rispettabile e rispettata, un alieno in un mondo che, cedendo ai dialetti della politica e all’umore delle fazioni, ha talvolta stentato a riconoscerne stile, valore ed autorevolezza. E ciò, al di là delle umane fragilità che sono la sofferenza, talvolta anche la grandezza, degli uomini che hanno attraversato la storia italiana.

La lunga conversazione sull’Italia e sull’Europa racconta uno spaccato della vita italiana popolato di esperienze, illusioni, prove di coraggio e di intransigenza, applicazione di quella risorsa (democristiana) dell’intelligenza ch’è la mediazione: il dispiegamento del cammino vissuto dalla politica, dalla cultura, dall’antropologia in un paese diseguale per le differenze ereditate dal processo risorgimentale, affrontato con la forza ideale di una generazione che aveva maturato un’acerba eppure convinta e forte vocazione a “servire”.

Sarebbe interessante risalire dalle pagine da noi raccolte, da Levi riordinate e con Lui ostinatamente e rigorosamente ricostruite, quando non estratte (con qualche pudore) dalla sua memoria lucida e coerente, al profilo di una classe dirigente che ha saputo guidare l’Italia in una difficile ma straordinaria convivenza fra posizioni antagoniste, aprendola all’integrazione europea e offrendole l’impronta di uno stile, di una competenza e di una autorevolezza che sono stati la cifra di una crescente reputazione internazionale.

Colombo è stato “dentro” questa innegabile storia, sulla scia delle straordinarie prove offerte da quella generazione che intorno a De Gasperi ha costruito l’epopea di un Paese nuovo, affrancato dalla tragedia del fascismo e proiettato nell’impresa di portare l’Italia fra le nazioni più progredite del mondo. Una storia che ha visto maturare esperienze inedite, temperare distanze ideali conflittuali e alternative, e quindi cambiare natura e cultura di protagonisti collettivi. Una storia che ha segnato il passaggio della “provincia” italiana dal bozzolo del localismo culturale e politico alle forme di una piena e matura integrazione nell’Europa e nel mondo. Colombo è stato l’espressione più riuscita di uno standard europeo internazionale che ha molto giovato al suo Paese ma anche alla sua piccola regione che oggi, con qualche dissimulato languore, fatica a ricordarlo almeno per debito civile e morale.
……….

Ero stato da Colombo qualche giorno prima che si spegnesse. Era affaticato e non potendo sostenere una vera conversazione aveva affidato a me di parlargli. Credo non avesse coscienza della fine. Continuava a manifestare una viva curiosità per le cose del mondo, per le nostre mediocri quando non amare vicende regionali e per quelle che considerava le non eccelse vicende della politica italiana avvolte in una lenta e misteriosa transizione.

Gli avevo portato l’ultima fatica di Beppe Vacca: “Moriremo democristiani?”, una navigazione fra l’anatema e il sortilegio. Vacca era stato spesso nella casa di Garramone, un nostro commensale acuto e conviviale, impostato di quella sapienza togliattiana che lo portava a sostenere come in Italia, a fronte delle astuzie della storia, avesse vinto la politica agìta dall’intelligenza. Intendeva quell’attitudine ad intrecciare machiavellicamente tutte le ragioni che stanno dentro la forza emancipatrice del pensiero, uno storicismo dolce, ostile ad ogni ossessione ideologica in forza del quale tutti i fili della storia universale trovavano in Italia un’occasione combinatoria e un originale approdo in grado di predisporla all’”uscita di sicurezza” dai drammi del 900.

“Moriremo democristiani?” appariva così un modo per compensare dalla prospettiva, che ci dovette apparire terribile, di “morire comunisti”. Ne parlammo per battute e per rapidi rimandi che lo fecero sorridere. Convenimmo sulle qualità di Vacca e sulla sua capacità di raccontare ex post la trama di quel mistero che ancora oggi è l’Italia: quell’approdare dal conflitto ideologico del dopoguerra, attraverso gli anni del governismo democristiano e della elaborazione morotea, dentro l’alveo di un riformismo ricco di propositi generosi e di occasioni perdute, un fiume in corsa verso la “nuova terra promessa”, il futuro da definire e l’orizzonte da sublimare. Era un tempo di inquietudini e di perplessità appena temperate dalla ragione. So tuttavia quanto Colombo guardasse con il sottile scetticismo che sovente armava la sua osservazione della politica italiana l’approdo nel PD dell’”intera” tradizione democristiana, non solo quella di una parte. Gli appariva, il PD, un progetto sospeso, per dirla meglio, incompiuto, un puzzle ancora privo di prospettive, reso provvisorio dalla dissoluzione di due grandi tradizioni politiche e ideologiche e della labilità di una sintesi ancora nebbiosa. Non poteva certo prevedere che il processo di avvicinamento fra storie diverse culminasse nella filosofia “situazionistica” che elegge la turbopolitica ad agente del cambiamento. Non era ancora giunto il tempo di Renzi. Nè so immaginare come Egli avrebbe giudicato Renzi, osservandone lo stile consolare impresso al calendario e alla scelte di governo. E’ un pensiero che mi intriga e in qualche modo mi solleva, poiché Renzi l’ho sostenuto riconoscendogli l’effetto corroborante, quasi psicanalitico sull’estenuata condizione della politica italiana.
Non ho più visto Colombo se non composto con la testa reclinata in un sonno finalmente quieto, salutato com’era giusto da sodali di partito e dai tanti esponenti della vita pubblica, della burocrazia della economia e dalla società che erano stati il mondo a lungo frequentato e sofferto.
……….

Mi chiedo oggi se ci sia un modo per ricordare il debito che abbiamo tutti, dico tutti, verso Colombo. Se vi sia un modo che valga a sottolineare il valore di quell’esercizio della modernità che è stato la provincializzazione dell’Italia e, nel concreto esercizio del potere, lo “sdoganamento” della nostra regione. Un’opera condotta non da solo ma sulla scia di spiriti illuminati che nella storia hanno segnalato la incomparabile qualità di un territorio. Mi pare essenziale ricordare qual è stato il rapporto che Colombo ha voluto con Matera, in nome di quell’eccezione che Egli ha sempre riconosciuto alla città, alla sua natura, alla sua storia e alla sua cultura. Mi chiedo ancora, in punta di penna e con il pudore obbligato in questi casi, se il trionfalismo che ha accompagnato il meritato riconoscimento a Matera di Capitale della Cultura non debba in qualche modo essere attribuito al suo lavoro politico e legislativo per la bonifica e il recupero dei Sassi e se non si debba in qualche modo alle Leggi Colombo e alla ultima, la 771, progenitrice del riconoscimento Unesco, il merito non banale ma risolutivo di un’affermazione così straordinaria. L’ultima Legge per i Sassi porta la firma di Emilio Colombo e, se è consentito, anche la mia, pur se la “riscrittura” che si sta tentando della storia su Matera e sulle sue vicende tende a cancellare nomi e opere in funzione di inedite autocelebrazioni.
Proponemmo un anno fa che si potesse ricordare Colombo chiamando a cooperare in una “Fondazione Emilio Colombo per l’Europa” le migliori intelligenze italiane e straniere. Una istituzione di studi, di ricerche e di formazione che ricordasse l’impegno che valse a Colombo l’attribuzione del premio “Carlo Magno” ad Acquisgrana e, più recentemente, del premio “Monnet” a Losanna. Un’impresa che guardasse alle nuove generazioni del Sud, non solo ad esse naturalmente, alle quali ricordare che solo in un’Europa restituita alla sua originale missione, quale la vollero De Gasperi, Adenauer e shuman sarebbe possibile ritrovare la sorgente di una politica affrancata da vecchie soggezioni e restituita alle altezze che essa dovrebbe frequentare.

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