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Dopo essersi rifiutato di spacciare per i Valente di Scalea, il 27enne di Rivello denunciò tutto ai carabinieri. Era stato messo sotto protezione. Per il gip aveva un debito coi referenti campani della ‘ndrina dei Muto

di LEO AMATO 

POTENZA – Gli avevano chiesto di lavorare per loro: i «Valente» di Scalea; una cellula dipendente dal “locale di ‘ndragheta” di Cetraro, secondo i pm della procura di Catanzaro. Volevano estendere il loro territorio di spaccio, «che muove lungo l’asse Cetraro-Scalea, anche nell’area potentina di Rivello». Ma le cose non sarebbero andate per il verso giusto. Sono scattate le intimidazioni e il “gancio” ha denunciato ai carabinieri. Solo che 3 mesi dopo è morto, e da allora c’è chi non ha mai smesso di chiedere chiarimenti sull’accaduto.
C’è anche la morte sospetta di un ragazzo di 26 anni tra le storie che emergono dall’inchiesta della Dda di Catanzaro sul “re del pesce” di Cetraro e i suoi traffici lungo la costa tirrenica, tra Calabria, Basilicata e Campania.
E’ il caso di Nicola Chiarelli, un operaio di Rivello, che a ottobre del 2014 aveva deciso di raccontare tutto ai militari ma a gennaio del 2015 è stato rinvenuto esanime in un’anonima casa vacanze di Arrone, in provincia di Terni. Lì dove secondo i genitori sarebbe stato trasferito qualche giorno prima, quando per lui era scattato il programma speciale di protezione riservato ai collaboratori di giustizia.
Il referto medico parla di «sospetta overdose da stupefacenti dovuta ad un’intossicazione acuta da cocaina con pregressa assunzione di eroina». Ma il presidio lagonegrese di Libera ha raccolto la testimonianza dei familiari di Chiarelli, per cui «Nicola non assumeva droghe pesanti» e resta da capire chi gli avrebbe fornito la dose mortale e come avrebbe potuto incontrarlo dove si era rifugiato.
Il gip Giovanna Gioia, che ha disposto i 58 arresti eseguiti martedì mattina, si sofferma sulle «problematiche scaturite dalla mancata riscossione del debito contratto da Chiarelli» con Luigino Valente e Gianfranco Di Santo, entrambi di Scalea e indagati per traffico di stupefacenti con alcuni maggiorenti del «clan» di Franco Muto.
Grazie alle intercettazioni effettuate nelle auto utilizzate dai due gli inquirenti sono riusciti a ricostruire l’incontro col giovane rivellese con la “proposta” di lavorare per conto loro in Basilicata. Quindi quel debito per una fornitura di 25 grammi di cocaina che Chiarelli aveva pagato soltanto in minima parte. Poi le pressioni di un altro dei Valente, Carmelo, perché rientrassero i soldi. Fino al momento in cui è iniziata la ricerca di informazioni per «sapere l’esatta ubicazione dell’abitazione» del 27enne.
Il magistrato parla di «concitati tentativi» di recuperare il denaro «anche ricorrendo all’uso della forza (…) tanto da indurre Chiarelli, in data 21 ottobre 2014, a sporgere denuncia alla stazione dei carabinieri per le pesanti intimidazioni di cui era vittima da parte di esponenti del gruppo Valente».
Chiarelli sarebbe stato interrogato 3 giorni più tardi riconoscendo in foto anche Di Santo.
«Dopo numerosi acquisti di piccoli quantitativi di stupefacente veniva proposto a Chiarelli di acquistare quantitativi più corposi di cocaina». Riassume il gip. Per un debito che «a seguito degli ultimi acquisti di cocaina ammontava effettivamente a 1650 euro, come riferito dallo stesso». E riscontrato da un’altra intercettazione tra Luigino Valente e Di Santo.
«Con grande coraggio, forza e determinazione Nicola si rivolse ai carabinieri e denunciò gli spacciatori, fornendo un racconto lucido e circostanziato che permise alle forze dell’ordine di capire il contesto criminale nel quale si era trovato». Questo è quello che hanno sostenuto gli attivisti di Libera Basilicata durante un’assemblea organizzata in suo ricordo a Rivello agli inizi dell’anno. Pur riconoscendo che «come molti ragazzi, purtroppo, faceva uso di sostanze stupefacenti e per procurarsele era entrato in relazione con alcuni pregiudicati calabresi».
Chiarelli venne trovato riverso a terra, tra il tra il tavolo della cucina e la porta d’ingresso principale della casa vacanza di Arrone.
La famiglia ha avanzato dubbi anche sul referto del medico legale, che non aveva rilevato sul corpo segni di alcuna natura, né ecchimosi né ferite, «ad eccezione di due piccoli ematomi in entrambi gli arti superiori probabilmente causati dall’uso di siringhe».

Didascalia foto:
Gli arresti del 19 luglio scorso che hanno colpito il clan Muto

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