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Luigi D'Angola

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Malapolitica lucana, accuse in bianco per due: per il dg Asp D’Angola e Labianca (task force covid) notifiche senza contestazioni

POTENZA – Pare destinato a scendere subito a 28 il numero degli indagati per cui la procura della Repubblica di Potenza potrebbe chiedere il rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sulla “mala politica lucana”.

Nei prossimi giorni, infatti, dovrebbero essere diverse le memorie trasmesse ai pm titolari del fascicolo, il procuratore Francesco Curcio e il pm Vincenzo Montemurro, dai difensori dei 30 destinatari dell’avviso di chiusura delle indagini.

MALAPOLITICA LUCANA, ACCUSE IN BIANCO PER D’ANGOLA E LABIANCA

Tra i primi a farsi avanti, quindi, dovrebbero esserci quelli del direttore generale facente funzioni dell’Asp, Luigi D’Angola, e del coordinatore della task force coronavirus della Regione Basilicata, Michele Labianca. I due risultano nell’elenco degli indagati sul frontespizio dell’avviso ma non vengono mai citati nei 22 capi d’imputazione riportati nelle pagine successive.

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Vale a dire tra le contestazioni relative ai due filoni d’indagine per cui i pm sarebbero pronti ad imbastire un processo vero e proprio: quello sulle presunte corruttele elettorali consumatesi in occasione del voto di settembre del 2020 a Lagonegro; e quello sul sistema di potere interno alla maggioranza regionale che avrebbe voluto «speculare» sulla ristrutturazione dell’ospedale di Lagonegro, e la gestione della sanità più in generale.

I nomi di D’Angola e Labianca, infatti, sarebbero rimasti per errore nell’elenco dei destinatari degli avvisi di chiusura delle indagini dopo lo stralcio dagli atti destinati a finire a processo di quanto emerso da un terzo filone investigativo. Ossia quello su una presunta corsia preferenziale per l’accesso ai tamponi per la diagnosi del covid 19 riservata a potenti e amici dei potenti della Regione Basilicata nelle prime, drammatiche settimane della pandemia. Per i due dirigenti sanitari, quindi, lo stralcio delle rispettive posizioni apparirerebbe quasi scontato, di fronte alla segnalazione ai pm dell’errore in cui sono incorsi.

POSSIBILE IL RIENTRO NELL’INCHIESTA DI UN ALTRO INDAGATO

Il numero degli indagati potrebbe subito risalire a 29, però. Ciò per effetto del recupero di un’ulteriore nominativo, quello dell’ex capo dell’ufficio legislativo della presidenza della giunta regionale Antonio Ferrara. Nominativo che a causa di un errore di segno opposto non è stato riportato nel frontespizio dell’avviso. Ciò pur essendo presente in uno dei capi d’imputazione riportati nelle pagine successive.

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Nei confronti suoi, del governatore Vito Bardi, e dell’ex assessore alla sanità, e attuale consigliere regionale Rocco Leone (FdI), i pm hanno ipotizzato una tentata induzione indebita in concorso in relazione alle presunte pressioni esercitate su un avvocato della Regione, Valerio Di Giacomo. Pressioni indirizzate ad ammorbidire la difesa della Regione davanti al Tar Basilicata, rispetto al ricorso contro la nomina dell’allora direttore generale del San Carlo, Massimo Barresi, scelto dalla vecchia giunta di centrosinistra, che era stato presentato dall’attuale dg del San Carlo, Giuseppe Spera (ricorso che in seguito sarebbe stato accolto dai giudici amministrativi, ndr).

MALAPOLITICA LUCANA, LA STORIA DELL’INCHIESTA

L’inchiesta sulla “mala politica lucana” era partita, a novembre 2019, dalle denunce ai carabinieri dell’allora direttore generale del San Carlo, Barresi. Nella denuncia riferiva di aver ricevuto pressioni indebite dall’allora assessore alla Sanità, Leone, e lanciava una serie di ombre sull’operato del suo successore, Spera.
In seguito, malgrado alcune perplessità al riguardo tra gli investigatori, i pm hanno “eletto” a superteste dell’accusa anche l’ex segretario del governatore Bardi, Mario Araneo. Questi ha riscontrato le dichiarazioni del suo “protetto” Barresi, riferendo di una «compagine» interna all’amministrazione regionale e guidata da Cupparo, Leone e Piro, che «quotidianamente offendeva la reputazione e la professionalità» del dg. Offese che, a detta di Araneo, non sarebbero state ispirate dalle oggettive criticità emerse durante la sua gestione dell’azienda ospedaliera regionale. Ma dalla volontà di destituirlo per «le mancate adesioni (…) alle continue richieste di sistemazione di amici che provenivano dagli assessori e/o richieste inerenti la regolamentazione dei cospicui interessi sottesi alla realizzazione del nuovo ospedale di Lagonegro secondo il volere degli stessi assessori».

Agli inizi di ottobre dell’anno scorso il gip Antonello Amodeo aveva concesso le misure cautelari chieste dai pm per alcuni degli indagati. A fine mese, però, il Tribunale del riesame aveva accolto i ricorsi di quanti avevano chiesto di tornare in libertà ridimensionando in maniera consistente il quadro delle accuse.

I giudici avevano evidenziato, in particolare, l’assenza di riscontri alle accuse dei supertestimoni e dell’avvocato Di Giacomo. Inoltre avevano escluso l’esistenza di «elementi concreti idonei a far ritenere che vi fosse un disegno criminale ritagliato su interessi economici privati» dietro al progetto del nuovo ospedale di Lagonegro.

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