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Il quadro di Maurizio Restivo, “U muortt” e don Mimì Sabia insieme a Danilo Restivo

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POTENZA – Ulderico Pesce in un suo post su Facebook, chiede con forza che vengano rimossi i quadri di Maurizio Restivo dalla Biblioteca nazionale di Potenza. «Innanzitutto – dice – perché di alcun valore artistico e nulla hanno a che fare con le prerogative del luogo: lo studio. Ma anche perché quadri horror». Poi, si sofferma su un quadro in particolare, dal titolo: “U muortt”, realizzato nel 1994, qualche mese dopo la morte di Elisa. In verità, un lavoro strano. Tavolozza e pennello disegnano in un bianco e nero irreale figure improbabili, come la storia rappresentata. Il soggetto è la morte, ma quale morte! Figure e simboli potrebbero raccontare una storia accaduta davvero? E quale? Un quadro che a modo suo ci parla da trent’anni, attraverso messaggi criptati? Un giallo nel giallo.

E più che togliere il quadro, andrebbe a questo punto studiato da esperti criminologi e altre figure capaci di dare delle risposte; per capire se è solo un brutto lavoro o dietro si celano delle verità, che già a poche ore da un orrore, da un efferato omicidio, che ha cambiato per sempre la vita di una famiglia e di una città, qualcuno voleva a modo suo raccontare e denunciare.

Pesce, inizia a descriverlo: «Un morto portato in giro per Potenza su un baldacchino, senza una bara, accompagnato da ridicoli e goffi tromboni. Come a voler ridicolizzare la morte. Un ragazzo – sottolinea Pesce – a destra del corpo morto un ragazzo che somiglia a Danilo. E tutta la composizione sviluppata dal basso verso l’alto, porta lo sguardo in alto. Forse indica un sottotetto?».

Una serie di domande che fanno del quadro non più un semplice quadro. Cosa si cela, cosa ci vuole dire? Messaggi nascosti, tra pennellate di chiaro-scuro? Poi l’occhio si sofferma sul prete e la croce, su in alto tra i tetti, altissima, che rapisce da subito la mente e gli occhi.

«Sembra una croce spada, lancia di ferro, sottile, strumento di preghiera o di morte? Un po’ strana e ambigua – fa notare ancora l’attore lucano – sia la croce che il prete. Un caso? – si chiede ancora – la Croce può essere uno dei tanti indizi? A vederla bene, non è una semplice croce, ma una croce a raggiera che simboleggia la Trinità».

Qui, ci si ferma. Ci si guarda intorno, si vuole capire. Troppe le tessere che si incastrano. E le domande sul portale di Pesce diventano fiume in piena. I tanti che lo seguono strizzano l’occhio al passato e ognuno diventa inquisitore o inquirente. “Croce della Trinità”, un semplice caso o un altro indizio. Cosa ci vuole indicare? Perché proprio quel tipo di croce? Perché la “Trinità” tra i tetti?

Il pensiero di tanti, come quello di Pesce, subito corre verso la chiesa della Trinità, luogo dalle mille domande, sudario di pietra e di polvere della povera Elisa e forse altro ancora.

«Sono io un iconografo malato – si domanda – che vede cose che nulla hanno a che fare col rapporto tra opera e realtà?».
Questa la domanda che Ulderico Pesce si pone, ma che a questo punto non lascia nessuno indifferente. «Dobbiamo chiederci – continua ancora – perché tenere quei quadri proprio nel luogo dove le nuove generazioni si formano».
Poi, ancora un’ultima cosa: «L’unico personaggio a colori – fa notare Pesce – è un ragazzino-ragazzina che somiglia un po’ ad Elisa, perché a colori? Perché segnalarla con la maglia colorata?».

Il racconto e le tante domande ci prendono la mano, ci coinvolgono, e tante di quelle le facciamo nostre.
Ma allo stesso tempo ci chiediamo se sono solo le parole e le ricostruzioni di un regista e bravo attore, abituato a scrivere trame e raccontare storie. Oppure in quel quadro, appeso a un muro da anni, sotto lo sguardo di chissà quanti, si nasconde davvero la chiave di un terribile mistero.

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