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POTENZA – Avrebbero taglieggiato gli espositori della tradizionale Sagra della Varola di Melfi per garantire un minimo sostegno economico agli esponenti del clan detenuti. Non si sarebbero fatti scrupoli a “tassare” diversi imprenditori della cittadina federiciana, anche soltanto per punizione perché non erano riusciti a ottenere qualcosa che sarebbe servito al boss degli storici alleati potentini. Ma a un certo punto, dopo aver perseguito per anni il monopolio della raccolta della paglia nei campi attorno alla città, qualcuno avrebbe iniziato a sognare più in grande. Puntando all’affare delle energie rinnovabili.

Per questo avrebbe incontrato il patron della locale squadra di calcio, Lorenzo Navazio, sua sorella Vincenza, consigliera comunale in carica, e il nuovo presidente del Potenza calcio, Donato Macchia, che sulle rinnovabili ha costruito le sue recenti fortune.

E’ il compendio di quasi 10 anni di indagini il fulcro dell’inchiesta per cui ieri mattina sono state eseguite dai militari della compagni carabinieri di Melfi e dagli agenti della sezione anticrimine della questura di Potenza 16 ordinanze di misure cautelari: 11 di custodia in carcere, 3 di arresti domiciliari, più 2 obblighi di presentazione alla polizia. Mentre un’altra quarantina di persone risultano indagate a piede libero.

Nel mirino sono finiti i boss dell’omonimo clan di Melfi, Angelo e Vincenzo Di Muro, già detenuti, ma anche il presunto terzo in comando dell’organizzazione mafiosa, Lorenzo Delli Gatti, che a giugno del 2020 avrebbe guidato gli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia di Potenza, attraverso una serie di dialoghi telefonici intercettati, alla scoperta di una serie di manovre per pilotare l’asta per la vendita  da parte dell’Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo e Alimentare — Banca Nazionale delle terre agricole) di un lotto di 47 ettari di terreni agricoli nella cittadina federiciana. Per quest’ultima vicenda la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari anche per Lorenzo Navazio e Macchia. E il gip Teresa Reggio aveva pure confermato l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a loro carico, escludendo soltanto l’aggravante mafiosa.

Lo stesso gip, tuttavia, si è dichiarato incompetente a livello territoriale, dal momento che la vendita in questione è avvenuta a Roma. Quindi ha escluso la sussistenza di «ragioni urgenza idonee a giustificare l’applicazione di una misura cautelare» da parte sua, al posto dei colleghi della capitale.

I dettagli di quanto emerso dalle indagini sono stati illustrati ieri mattina, in una conferenza stampa, dal procuratore aggiunto di Potenza, Maurizio Cardea, dal pm antimafia Gerardo Salvia e dai vertici del comando provinciale e della questura di Potenza.

L’INCHIESTA

DAL 2013 in poi, a Melfi, sarebbe esistita un’associazione mafiosa composta dai due fratelli Angelo e Vincenzo Di Muro, e altre 20 persone: Umberto e Andrea di Muro, Michele, Lorenzo e Antonino Delli Gatti, Nicola Cassano, Vincenzo Marchese, Ivo Lopa, Antonio Gaudiosi, Marino Sciaraffa, Antonio Ferrieri, Nicola Racioppi, Michele De Filippis, Donato Prota, Alessandro Patriziano, Donato Fuschetto, Angelo Di Tolve, Gerardo Calabrese, Angelo Finiguerra, Angelo Asquino, Giacomo Gigante e Pasquale Lomio.

E’ questa l’accusa principale che emerge dall’inchiesta dell’antimafia lucana per cui ieri mattina  sono state eseguite 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 3 di arresti domiciliari, e altre 2 con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. I pm potentini contestano anche il concorso esterno nel clan e 5 distinti episodi di estorsione aggravata a Francesco Fischietto, Giuseppe Savino e Antonio Di Vienna, per aver estorto cifre tra i 20 e i 50 euro ad alcuni espositori presenti all’edizione 2019 della Sagra della Varola, la tipica castagna dell’area del Vulture, per contribuire al sostentamento degli affiliati detenuti. Stessa accusa mossa anche a Francesco Carnicella, che avrebbe omaggiato la famiglia Di Muro di forniture di carne sottratta dagli scaffali del supermercato per cui lavorava, Andrea Mazzucca, che avrebbe provveduto alla consegna dei soldi, in carcere, inviate dai sodali Sciaraffa e Ferrieri al boss Angelo Di Muro, e altri 2 finanziatori di quest’ultimo e del fratello, durante la loro detenzione: Andrea Della Spina e Donato Tudisco.

Per i medesimi alimenti consegnati da Carnicella alla famiglia di Muro risultano indagati, per un’ipotesi di furto aggravato, anche Angelo e  Vincenzo Di Muro, la moglie di quest’ultimo, Roberta Tudisco, e un altro presunto affiliato del clan, Fuschetto, dipendente del medesimo supermercato. Quando poi i “continui ammanchi” dalla macelleria sono diventati evidenti, i due Di Muro, Tudisco, Fuschetto e Carnicella si sarebbero resi responsabili di una vera e propria estorsione aggravata dal metodo mafioso ai danni del titolari del supermercato, convinti a “tollerare” quei furti senza denunciare l’accaduto né assumere provvedimenti contro i loro dipendenti.

Un’ulteriore ipotesi di estorsione viene contestata al solo Vincenzo Di Muro, per aver costretto due imprenditori di Rimini ad assumerlo “fittiziamente” alle dipendenze delle sua società. Per Ferrieri e la moglie Rosa Capobianco, poi, i pm ipotizzano una truffa legata all’assunzione del primo nella ditta intestata alla seconda, che gli avrebbe consentito di accedere all’indennità di disoccupazione malgrado il suo ruolo, effettivo, di co-gestore della società in questione. Gli inquirenti addebitano a Sciaraffa il furto messo a segno ad agosto del 2015 ai danni del bancomat delle Poste di Barile, scassinato grazie a una carica di esplosivo. Ferrieri e Sciaraffa sono anche accusati di aver detenuto illegalmente almeno un paio di pistole, di cui una col silenziatore. Idem Fuschetto. Lo stesso Ferrieri, inoltre, avrebbe spalleggiato Mauro Nuzzo in una compravendita di droga non meglio precisata, e avrebbe detenuto piccole quantità di hashish e coltivato almeno 7 piante di marijuana.  

Per una serie di singole cessioni di droga sono indagati, in particolare: Franco Calabrese, Antonino e Lorenzo Delli Gatti, Carnicella, Andrea e Umberto Di Muro, Giovanni Ruotolo, Cataldo Leuci, Fischietto, Roberto Sinigaglia e Federica Branchini. Umberto Di Muro rischia di finire a processo con Maria Festino e Michele Lomio per un’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale aggravata per le minacce e gli ostacoli frapposti, anche fisicamente, a un appuntato dei carabinieri “reo” di averlo fermato mentre era alla guida della sua Bmw. Sempre Umberto e Vincenzo Di Muro, poi, risultano indagati per un’ipotesi di estorsione aggravata legata alla sanzione pecuniaria da mille euro al mese imposta a un imprenditore, Nicola D’Adamo, a cui era stata affidata una missione molto particolare, che però non era riuscito a portare a termine. Vale a dire un tentativo di convincere la vedova dell’imprenditore potentino Donato Abruzzese, trucidato nel 2013 dal “capo di un sodalizio mafioso alleato”, Dorino Stefanutti, a non costituirsi parte civile nel processo contro quest’ultimo. Sanzione per cui D’Adamo avrebbe protestato platealmente, estraendo la pistola ed esplodendo alcuni colpi dimostrativi, che gli sono costati un’accusa di porto d’armi illegale. Ferrieri, Sciaraffa, Mazzucca e Nuzzo sono indagati, ancora, per il furto di un trattore, nel 2017, dalla Cooperativa Agricola Olearia Vitivinicola Barilese. Altre tre estorsioni a carico di Vincenzo Di Muro, invece, riguardano: i solleciti a un imprenditore melfitano per le rimesse da destinare in carcere al fratello, Angelo; un Rolex Daytona, che si sarebbe fatto consegnare da altri due imprenditori melfitani per “remunerare, direttamente o indirettamente, l’assistenza legale del fratello”; e “una partita di alcune decine di metri di rivestimenti per pavimenti” donatigli da due rivenditori, i fratelli Giovanni e Michele Vernetti, che poco prima avevano subito uno strano attentato incendiario. Due fratelli finiti a loro volta sul registro degli indagati per un’ipotesi di favoreggiamento per aver negato con gli investigatori la “gratuità” di quella fornitura. Lorenzo e Antonino Delli Gatti, Angelo e Michele Finiguerra, Angelo Asquino, Giacomo Gigante, Leonardo Altieri, Luigi Bevilacqua e Antonio Sonnessa sono indagati per un’ulteriore ipotesi di concorrenza illecita con minaccia e violenza aggravata dal metodo mafioso per aver monopolizzato le forniture di paglia per un noto allevamento, con laboratorio lattiero-caseario annesso, di Atella.

Una distinta contestazione di turbativa d’asta aggravata dal metodo mafioso riguarda, poi, lo stesso Lorenzo Delli Gatti, più Maurizio Savino, la consigliera  di maggioranza del Comune di Melfi, Vincenza Navazio, suo fratello Lorenzo, presidente del Melfi Calcio, e il neo-patron del Potenza calcio, Donato Macchia, che avrebbero pilotato la vendita da parte dell’Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo e Alimentare — Banca Nazionale delle terre agricole) di un lotto di 47 ettari di terreni agricoli nella cittadina federiciana a favore di Vincenza Navazio. Sempre Lorenzo e Antonino Delli Gatti, Angelo e Michele Finiguerra, e Asquino, poi, sono accusati di estorsione  per aver aver costretto altri raccoglitori di paglia a farsi da parte.  E altre due estorsioni ancora sarebberero stata commesse da Lorenzo Delli Gatti per aver imposto a un imprenditore di Venosa di rinunciare a un credito nei suoi confronti, e aver fatto incetta di commesse per la raccolta della paglia, prendendo di mira, assieme al fratello Antonino, un concorrente che puntava, come loro, alla fornitura di una centrale di biomasse in provincia di Foggia.

Particolare, infine, il caso di un’ulteriore estorsione addebitata ad Andrea di muro e Giovanni Ardoino, che avrebbero preso di mira un ex collaboratore di giustizia “riparato” in Basilicata dopo aver tagliato i ponti con i suoi vecchi amici del clan dei casalesi. Un episodio, quest’ultimo, a cui secondo i pm avrebbe assistito anche Luigi Maiellare, che però di fronte agli investigatori ha negato tutto. Finendo iscritto a sua volta sul registro degli indagati per favoreggiamento.

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