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Il segretario regionale della Cisl Enrico Gambardella

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POTENZA – C’è una «bomba sociale» pronta a esplodere in Basilicata. E a innescare la miccia rischia di essere la Regione coi suoi ritardi nella trasmissione all’Inps delle pratiche per l’accesso ai fondi della cassa integrazione guadagni (cig), rimpinguati per l’emergenza coronavirus.

E’ quanto denuncia il segretario regionale della Cisl Enrico Gambardella evidenziando come delle oltre 4.500 aziende lucane che ne hanno fatto domanda, in poco più di 2 settimane, solo «576», a ieri mattina, hanno visto la loro pratica arrivare agli uffici dell’Inps, per lo stanziamento dei fondi. Una lentezza che minaccia di trascinare per mesi e mesi l’attesa per l’esito di quelle presentate per ultime, lasciando migliaia di lavoratori senza alcuna retribuzione per quasi quattro mesi di fila.

Segretario Gambardella, cosa non sta funzionando?

«In Basilicata sta accadendo qualcosa di inaspettato perché l’Inps all’indomani del decreto legge che consentiva procedure semplificate di accesso alla cassa integrazione in deroga aveva espresso preoccupazione sui tempi per l’erogazione dei soldi da parte sua. Per questo si è lavorato a un accordo con l’associazione delle banche per l’anticipazione delle somme in questione da parte degli istituti di credito. Nessuno, però, si immaginava che il collo di bottiglia si creasse in Regione».

In che senso?

«La procedura semplificata prevede che il datore di lavoro raggiunga un accordo con le organizzazioni sindacali. E’ un accordo formale, su un’emergenza evidente e una motivazione fissata dalla norma, con un’istruttoria essenziale. Poi l’accordo viene spedito alla Regione che non deve fare nulla, ma semplicemente validare, prendendo atto che l’impresa è lucana, e trasferire all’Inps. E’ un passaggio necessario, però, perché le risorse, per la Basilicata 45 milioni di cui 16 milioni già anticipati, per legge sono assegnate alla Regione che ne affida la gestione all’Inps. Ma se l’Inps ha costituito una task force implementando l’ufficio addetto in previsione dell’afflusso di domande in Regione si sono fatti cogliere impreparati. A oggi (ieri per chi legge, ndr) ho notizia di 4500 richieste di attivazione di cig. Parlo di 4.500 aziende non dei lavoratori interessati che sono molti di più. La Regione all’Inps ne ha trasmesse all’Inps solo 576. E parliamo di lavoratori in cassa integrazione da marzo, dato che è stata consentita anche la cassa integrazione retroattiva dall’inizio dell’emergenza covid. Il collo di bottiglia è diventata la Regione che aveva il compito meno gravoso di tutti»

Avete avuto interlocuzioni per capire i motivi di questa situazione?

«C’è una difficoltà legata al lavoro a distanza, che in Regione, io dico per fortuna, è abbastanza diffuso. Poi c’è una chiusura al dialogo, che è un effetto politico, con le organizzazioni sindacali. Per questo stiamo ricevendo ben poche notizie. C’è anche stato un ritardo di oltre una settimana nell’avvio della piattaforma informatica per la presentazione domande, che è entrata in funzione solo il 7 aprile».

Mi scusi, ma con meno di 300 pratiche trasmesse all’Inps a settimana e 4000 pratiche pendenti, non si rischia di trascinare questa storia per tutta l’estate?

«A oggi questo è. Assolutamente sì. Si vanifica il senso di una misura straordinaria ideata per dare liquidità e reddito a lavoratori che in molti mesi sono già al secondo mese di inattività e assenza di retribuzione, per colpa di inefficienze organizzative della Regione».

Sembra una bomba sociale pronta a esplodere.

«Lo è una bomba sociale, con tanti lavoratori senza salario per due mesi. Non solo percepiranno di meno ma lo percepiranno anche con ritardo».

Quindi la proroga della cassa integrazione che sta per essere concessa dal governo dopo la scadenza delle 9 settimane inizialmente coperte?

«Porterà a una seconda ondata di pratiche in Regione con gli effetti che possiamo immaginare. Si stanno mettendo le famiglie alla fame».

Forse abbiamo parlato troppo presto di fase 2, non trova?

«Qui in effetti ci siamo fatti prendere la mano dai dati più confortanti sui contagi mentre a nostro avviso c’è da restare cauti. La ripresa delle attività si può effettuare e lo auspichiamo, ma a condizione che si rispettino tutte le misure sicurezza previste Siamo tutti testimoni della difficoltà di reperire mascherine e altri dispositivi protezione. Noi abbiamo fatto una verifica delle aziende lucane che rientrano tra le attività lavorative di cui si è ipotizzata la riapertura in questi giorni, e dei loro dipendenti registrati all’Inps. Il risultato è che ci vorrebbero 120mila mascherine al giorno in Basilicata per ripartire in sicurezza. Il vero tema è la disponibilità di questi presidi. Il costo viene dopo perché il problema è il reperimento e la costanza di queste forniture. Su questo continuiamo a chiedere senza troppa soddisfazione un’interlocuzione con il governo regionale perché non si può lasciare l’onere a singole imprese e la norma prevede l’impossibilità di ripartire in assenza dei presidi».

Vale anche per Fca?

«Con Fca è stato già siglato un accordo diverso, perché è un’azienda che se lo può permettere e avrà trovato i suoi canali di approvvigionamento. Il problema è per quel tessuto produttivo lucano fatto di di micro e piccolissime aziende che necessità di una regia politica. Non chiediamo finanziamenti ma la certezza dell’approvvigionamento».

Il governatore Bardi e l’assessore Cupparo, in realtà, nei giorni scorsi hanno annunciato anche di un contributo alle aziende per l’acquisto di dispositivi.

«E’ una delle strade. Ma sarebbe utile anche incentivare la riconversione produttiva di piccole aziende lucane che possono produrre mascherine e quant’altro, offrendo la certezza di una commessa che dura nel tempo. Si è parlato della riattivazione del polo del corsetto, che è un’ipotesi forse fantasiosa, ma tante piccole aziende sarebbero in grado di riconvertire loro produzioni».

Non teme che nel medio periodo possano venire meno anche le risorse necessarie per questo tipo di politiche a causa del crollo di entrate regionali come le royalty del petrolio, colpite dal calo dei prezzi del greggio?

«Tutti gli analisti economici parlano di un prossimo periodo di recessione e a questo noi dobbiamo prepararci. Non saranno solo le auto o il petrolio a soffrire. Uno dei settori che sarà devastato nell’immediato è quello turistico. C’è da capire come adeguare il sostegno pubblico all’economia e allo sviluppo in questa fase di recessione. Servono misure straordinarie e coraggiose. Inevitabilmente si perderanno posti di lavoro e le categorie più fragili andranno sostenute. Allo stesso tempo dobbiamo supportare i settori che possono avere una ripresa più rapida come l’agricoltura. E’ sterile la polemica scatenata da Coldiretti sull’utilizzo dei lavoratori della forestazione per garantire i raccolti. C’è un’emergenza e noi per questo abbiamo proposto l’utilizzo dei lavoratori stagionali del turismo, peraltro già localizzati nel metapontino, per una chiamata straordinaria ai lavori agricoli. Perché in estate sono lavoratori che avranno difficoltà a coprire le giornate minime necessarie per avere la copertura della disoccupazione nel resto dell’anno. Riconvertiamo questi lavoratori nell’agricoltura anche con percorsi di formazione».

Solo percorsi di formazione o anche integrazione delle retribuzioni?

«Questi lavoratori accederanno comunque agli ammortizzatori sociali. Garantire una fase di riqualificazione con formazione e avvio al lavoro, quindi anche di integrazione salariale, significa risparmiare rispetto a quanto costerebbero se immessi direttamente in disoccupazione. Serve una visione complessiva, di sistema, e intervenire su tutti i settori. Questo chiediamo alla Regione e per questo siamo contrari all’attivazione di più tavoli di confronto. Serve un unico piano, guardandoci dall’errore di replicare gli interventi nazionali, poi sicuramente si possono attivare tanti tavoli tecnici. Ma la strategia deve essere unica come fatto nelle regioni vicine: in Puglia dove vengono annunciati interventi per 500 milioni, in Campania dove si parla di 900 milioni, o in Calabria dove sul piatto ci sono 450 milioni. Vanno riprogrammati i residui dei fondi europei che noi stimiamo in 190/200 milioni, le royalty del Programma operativo Val d’Agri, dove credo ci siano ancora 33 milioni, e le risorse destinate alle fragilità sociali ancora non utilizzate dai piani sociali di zona. Oggi serve tanta solidarietà e i campanilismi devono essere abbandonati. Non è possibile che ogni comune sia geloso di quello che gli era stato promesso come avvenuto per il programma operativo Val d’Agri, con la levata di scudi del sindaco di Viggiano Cicala e altri. Quelle risorse sono necessarie per rafforzare un’unica strategia di cui beneficeranno anche, ovviamente, le aree della Val d’Agri. Non possiamo permetterci frammentazioni politiche e di risorse, e questo è quello che chiediamo a Bardi».

Non pensa che oltre all’agricoltura ci siano anche altri settori su cui poter puntare?

«Il problema è che oltre ai dispositivi di protezione ci sono misure di distanziamento sociale da adottare, che significano costi da sostenere. Non so come possa fare un parrucchiere, ad esempio. Allora il tema è fin dove possiamo spingerci perché il rischio contagio non si elevi, dato che i contraccolpi di una nuova serrata sarebbero insostenibili. Anche per questo è incomprensibile la polemica sull’ospedale da campo del Qatar. Dobbiamo utilizzare questo periodo che ci porta in autunno, quando si prevede una recrudescenza della pandemia, per attrezzare al meglio la sanità con interventi elementari adottati per secoli come l’isolamento. Una volta c’erano i tubercolosai, i sanatori, con strutture dedicate. Per secoli si è mantenuto questo principio. Poi i ragionamenti economici hanno portato a soluzioni diverse. Dobbiamo tornare indietro e in autunno il sistema deve essere pronto. Ovviamente non lo possiamo fare con gli ospedali da campo che possono essere situazione una tampone nel periodo estivo. Anche la Basilicata deve pensare a strutture di contenimento e isolamento che non vadano a compromettere la normale attività dei presidi ospedalieri».

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