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VIBO VALENTIA – Vincenzo Ceravolo è un sopravvissuto. La mafia gli ha fatto la guerra. E anche lo Stato. E’ in trincea da una vita. Partì da una piccola pescheria, che poi crebbe. Un punto vendita e poi un altro e un altro ancora. La pescheria si trasformò in gruppo, gruppo internazionale che dalla costa vibonese ha conquistato il mercato: dall’America latina ai Paesi dell’Asia. Un esempio per capire: il sushi sulle tavole dei giapponesi; il tonno rosso del Mediterraneo, fresco e ingrassato, è suo. Si sa, però, cos’avviene a certe latitudini del globo. La ‘ndrangheta si fa sempre sotto e, se cresci, si fa sotto ancora di più. Minacce, estorsioni, attentati, danneggiamenti, furti. Una escalation che divenne insopportabile proprio quando Vincenzo Ceravolo si mise in testa di realizzare un miracolo: rilevare e convertire il sito industriale della Nostromo, fuggita dal Vibonese a gambe levate, all’inizio del millennio, per trasferire gli affari in Spagna. 

Ci riuscì, malgrado la pressione mafiosa, i risarcimenti non ottenuti e le traversie giudiziarie legate all’impresa compiuta. Da qualunque prospettiva lo si osservi, Ceravolo è un pezzo di storia dell’imprenditoria calabrese. Anche perché lui fu il primo a denunciare un boss del clan Mancuso, proprio mentre i Mancuso – disse la Commissione parlamentare antimafia – erano «il clan della ‘ndrangheta finanziariamente più potente d’Europa». E non denunciò un boss qualunque, ma Pantaleone detto “Luni Scarpuni”, figura di primaria grandezza della holding criminale calabra, che fu arrestato, processato e condannato in via definitiva, nell’ambito di un processo penale che sembrò rappresentare lo spartiacque tra il passato ed il futuro. Un futuro che improvvisamente vide il “gigante” di Limbadi vulnerabile ai colpi dello Stato, messo in ginocchio dalle successive operazioni condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e dalla Squadra mobile di Vibo Valentia. Altri tempi quelli. E’ da allora che Ceravolo, anche da testimone di giustizia ripetutamente vittima di attentati ed intimidazioni, vive braccato, bersaglio di una temuta vendetta e controllato a vista dagli uomini della scorta che gli era stata assegnata nel lontano 2003. Sono passati più di nove anni, ma ora, sostiene il competente Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, della protezione non ha più bisogno. Dal 15 luglio prossimo, quindi, niente più agenti armati ad esorcizzare ogni ritorsione nei suoi confronti: gliel’hanno comunicato pochi giorni addietro, con una nota di diciassette righe scritta in burocratese, dalla quale nulla si evince in ordine ai motivi sottesi alla decisione. D’altronde chi è stato condannato a causa delle sue denunce ha finito di scontare la pena e, oggi, è libero. D’altronde è come se questi ultimi dieci anni, trascorsi a martellare il potentissimo casato di Limbadi, non siano mai trascorsi. Perché tutto è, ora, punto e a capo. Sempre che anche un’istituzione del contrasto alla ‘ndrangheta – il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi – non sbagli quando sostiene che i “padroni”, dal Vibonese al Nord Italia, sono di nuovo, ancora, loro: i Mancuso. «Paura? Ne più né meno di quella vissuta in questi anni», dice l’imprenditore. E’ nello studio del suo legale, l’avvocato Antonello Fuscà. «Impugneremo questo provvedimento», spiega il noto penalista che assiste Ceravolo sin dall’inizio della sua odissea nelle aule di giustizia. Sentimenti e intenzioni non mutano lo stato dell’arte: dal 15 luglio niente più scorta. Ciò in una provincia che negli ultimi quattro anni ha visto trenta morti ammazzati, alcuni dei quali caduti – sostiene la Direzione nazionale antimafia – per aver alzato la cresta in un territorio che può avere un solo casato egemone. Comunicazione glaciale dallo Stato, che così ringrazia per i servigi ricevuti, giunta al sesto anniversario della morte di Fedele Scarcella, testimone di giustizia assassinato ad un tiro di schioppo dalle aziende del gruppo Ceravolo. Scarcella, vittima dimenticata della mafia, imprenditore agricolo che anni prima aveva denunciato una banda di malavitosi della Piana. Anni dopo la vendetta. «A dimostrazione – disse Tano Grasso ai suoi funerali, a Vibo – che la ‘ndrangheta non dimentica mai». Ceravolo lo sa. Altri invece, nonostante Scarcella, nonostante Lea Garofalo, nonostante altri morti ammazzati, scelgono d’ignorare. 

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