X
<
>

Condividi:
6 minuti per la lettura

La scrittrice Francesca Chirico, dopo essersi fatta conoscere al pubblico calabrese (e non solo calabrese) con la sua opera prima “Arrovescio”, licenzia ora il suo nuovo libro rimanendo ancorata al terreno fertile dell’impegno sociale e dell’afflato civile. Con “Io parlo” (Ed. Castelvecchi) l’autrice varca quell’invisibile confine che, qualche volta, separa la storia dal romanzo, il saggio dalla narrativa, potendo padroneggiare con assoluta scioltezza la lingua italiana. Riporta storie di ‘ndrangheta, vicende crudeli, scampoli di antropologia, in letture profonde della società calabrese nel versante ancora poco esplorato delle donne che spezzano con diverse modalità di caratteri e di sentimenti la catena millenaria del silenzio. La donna calabrese, madre moglie, sorella, ha vissuto (e vive ancora per certi aspetti) in una condizione di subalternità. Il riscatto, andando indietro nel tempo, inizia con le lotte bracciantili: dalle gelsominaie della Locride alle raccoglitrici di olive della Piana. Quelle icone del sacrificio, quelle figure epiche fissate nei volti di Giuditta Levato e Angelina Mauro che, ferita a morte dalla polizia, dal lettino dell’ospedale di Crotone dice a una parente prima di spirare: «Mammazzì l’avimu patuta». Era il grido fatalistico di un vivere esile, segnato dal destino. Il legno curvo della storia. La ricerca di Francesca Chirico misura il tempo trascorso. Le tappe verso la più completa emancipazione, certo di un’avanguardia. Un riscatto che parla, che urla la propria condizione non potendo e non volendo subire convenzioni, condizionamenti, usanze, tradizioni, finti matriarcati, anacronistiche ubbidienze, sudditanze psicologiche, offese, ignominie. Che parla e che denuncia. Anche alla luna, se è necessario. “Io parlo” di Franceschina Chirico sembra l’approccio di Pasolini quando dice “io so, ma non ho prove”. Ovvero una visione chiara di ciò che va ripreso e rilanciato in questa regione pietrificata dove anche la sensibilità degli intellettuali appare in qualche misura smarrita, forse stanca, flebile, inutile. Il libro passa in rassegna i casi di donne coraggiose, intemerate, che hanno nuotato contro corrente, risalendo le fiumare limacciose e minacciose degli inverni calabresi, gridando, patendo, morendo pur di non tacere. Da Angela Casella a Lea Garofalo a Maria Concetta Cacciola a Giusy Pesce. La ricordo bene Angela Casella. La sua immagine mi tornò nitida in mente nel dicembre 2011 quando seppi della sua morte. E il suo ricordo mi balza ora davanti agli occhi dopo aver letto il libro di Francesca Chirico. Era giugno del 1989 quando la vidi incatenata nella piazza dei Martiri di Locri davanti alla chiesa di Santa Caterina. Lì la conobbi e l’ ammirai. Suo figlio Cesare, 18enne, era stato rapito il 18 gennaio 1988 e sarà liberato dopo 734 giorni di prigionia. I sequestratori non si intenerirono certo – homo homini lupus -, ma la sua autorità morale fece scuola. La prigionia: un tempo lungo e crudele che la «madre coraggio», il suo nome di battaglia, il nome che le diede la comunità calabrese ammirata da tanta forza interiore e fisica, visse sempre all’attacco non rassegnandosi mai alla perdita del figlio. Appena la vidi rimasi sorpreso dalla sua figura esile, emaciata, fiera e umile a un tempo, sicura di fare affidamento sulle sue energie che sembravano inesauribili. Il suo profilo minuto le dava una connotazione meridionale, di donna del Sud. Quelle donne che non mollano mai. La sua venuta in Calabria, lei pavese, a cercare personalmente il suo bambino, a scovarlo con le sole armi dell’amore, tra gli anfratti dell’Aspromonte, tra i borghi pedemontani, e più su sulle cime della montagna, ma anche tra le palazzine anonime della costa e tra i casolari delle colline. Era come cercare un ago nel pagliaio. Ma lei fu spinta a venire in Calabria certo per un disperato atto di amore verso il figlio, ma anche perché aveva capito che lo Stato era e si dimostrava molle, inerte, sconclusionato, sebbene gli sforzi investigativi andassero crescendo perché si era in pieno clima di sequestri di persona, la stagione tragica della Locride. Angela Casella ebbe subito chiara una cosa: la qualità della caccia ai banditi era scadente perché poco dotata di intelligence. Da ciò derivavano altre due cose. Primo. Occorreva un battage pubblicitario per mettere le spalle al muro lo Stato. E lei diede un’impronta mediatica mai vista prima. Secondo. Occorreva una nuova strategia investigativa. Ed è tanto vero ciò che il “Caso Casella” fu uno spartiacque tra uno Stato passivo e uno Stato più attivo. Quella svolta ebbe un effetto dirompente, sicché un ciclone s’abbatté sulla credibilità e sul prestigio della Nazione. A un Paese che esportava un’immagine medievale si doveva dare un punto di sutura. Perché i sequestri di persona cessavano di essere un fatto locale, un cancro localistico, e diventavano, come diventarono, un fatto sociale di cui tutta la comunità doveva (o avrebbe dovuto più celermente) farsi carico. E il “Caso Casella” s’affacciò nella vetrina internazionale. La sua forza era un lievito perenne. Non si accontentò di incatenarsi come fatto simbolico una tantum. Lei venne per smuovere, per capire, per conoscere l’ambiente, per interloquire con quel mondo a lei sconosciuto, lontanissimo, ostile. Ma lei superò ogni barriera, volle confrontarsi con tutti. Parlò con tutti, disponibile con la stampa. Aiutò le forze dell’ ordine sebbene ci fosse un oggettivo diaframma per quella che poteva sembrare un intralcio al loro lavoro. Salì a San Luca e in atri paesi limitrofi, ovvero nell’epicentro dei sequestri di persona, reato odioso, per parlare con le donne del luogo. Da donna a donna. Da mamma a mamma. Alle nonne. Guardando negli occhi queste figure non poche vestite a lutto e portatrici dell’altra metà del cielo. Quello buio della disperazione sociale. Angela Casella smosse le acque putride dell’indifferenza e dell’assuefazione che pure stagnavano quando il sequestro di persona si trasformò da artigianato in industria del male. La signora pavese trascinò i simboli della sua missione: le catene, la tenda, le piazze della Locride, il Crocefisso di Zervò, la preghiera al Santuario di Polsi, i bagni di folla. Tenne, insomma, alta l’attenzione. Questa storia è dentro a “Io parlo”. Da qui la circolarità di emozioni che l’autrice offre al lettore. Angela Casella nei suoi soggiorni calabresi (il plurale segnala il suo calvario) fece ancora una cosa. Fece rete. Condivise altri drammi, s’integrò con quella parte della società calabrese che cominciava a reagire. Insieme a Maria Rombolà, la moglie del sindaco di Gioia Tauro ucciso dalla ‘ndrangheta, partecipò ad alcune iniziative antimafia che nacquero da movimenti spontanei. Grande donna. Grandi donne. Ha detto Luigi Banconi «Il ruolo di quei soggetti-simbolo che con la forza delle idee e dei sentimenti riescono a mettere in crisi i sistemi e i modelli della vigente organizzazione sociale che ha come paradigma un ordine formale nel quale il cittadino è meno di nulla».

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE