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Quando il bambino era bambino, | se ne andava a braccia appese, | voleva che il ruscello fosse un fiume, | il fiume un torrente, | e questa pozza, il mare. || Quando il bambino era bambino, | non sapeva di essere un bambino, | per lui tutto aveva un’anima | e tutte le anime erano un tutt’uno. || Quando il bambino era bambino, | su niente aveva un’opinione, | non aveva abitudini, | sedeva spesso a gambe incrociate, | e di colpo sgusciava via, | aveva una vortice tra i capelli | e non faceva facce da fotografo.|| Quando il bambino era bambino,| era l’epoca di queste domande:| “Perché io sono io e perché non sei tu?| Perché sono qui e perché non sono li?| Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?| La vita sotto il sole è forse solo un sogno?| Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro?| C’è veramente il male e gente veramente cattiva?| Come può essere che io che sono io non c’ero prima di diventare?| E che una volta io che sono io non sarò più quello che sono?”
Per tutta l’estate ho avuto in testa il cruccio – e la conseguente frustrazione per non esservi riuscito – di fare un’intervista a un noto magistrato, e prolifico scrittore, che fa anche l’orto. Frustrazione cresciuta a dismisura quando, nel tentativo di convincerlo a lasciarsi intervistare (e magari lasciarmi vistare il suo orto), mi ha spiegato che quello è rimasto il suo ultimo avamposto di intimità: l’ultimo angolo di terra in cui il noto magistrato, libero della sua scorta, il famoso scrittore, torna se stesso, solo; alle origini, bambino; alla semplicità dei gesti terra terra. Non immaginate che cosa possa significare per un giornalista intravedere una possibilità del genere e non poterla narrare; tanto che – lo ammetto – ho anche pensato all’idea di una intervista inventata (dichiaratamente inventata) o costruita  sulle poche cose dettemi per giustificare il rifiuto alla mia offerta. Ma ho desistito, fortunatamente; ed ecco perché non voglio neanche svelare il nome del personaggio.
Ma stanotte, verso le quattro, questa storia mi è tornata in mente, con un senso di colpa: aver ceduto all’empatia dell’uomo che nell’orto (come quel magistrato) ritrova la sua più profonda intimità, a scapito del mandato professionale. Conosco bene, infatti, la condizione di chi nell’orto si mette a nudo. O lo diventa suo malgrado. Come l’angelo Damiel che cade, di carne e sangue, nudo su quella terra che ha deciso di vivere da essere umano.
Ecco, ogni volta va a finire così: un pensiero mi assale, all’improvviso, di notte e puff, resto sveglio per ore, con la mente che vaga e pesca nello scantinato dei ricordi… Alle sei Nick Cave cantava your funeral my trial; Bruno Ganz faceva volteggiare, appesa alla corda, la bella Solveig Dommartin che diceva «Non me l’ero figurata così la fine del circo».
Nemmeno io.

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