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Un'immagine del giudice Petrini tratta dalle intercettazioni video

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CATANZARO – La “cantata” del giudice Marco Petrini è andata in scena il 31 gennaio scorso davanti al pm della Procura di Salerno Luca Masini, il verbale è denso di omissis e forse molti tremano, ma la cosa particolare è che a quanto pare il magistrato raccontasse menzogne anche a una delle sue amanti circa le somme incassate e non restituite con cui faceva vacanze all’estero.

Il giudice della Corte d’Appello di Catanzaro che ha rinunciato a proporre ricorso al Tribunale del riesame avverso il suo arresto per corruzione nell’ambito dell’inchiesta condotta dalla Guardia di finanza di Crotone ha, innanzitutto, ammesso di aver accettato somme di denaro da parte di Emilio Santoro, il presunto faccendiere e dirigente dell’Asp di Cosenza che sta collaborando anche lui con gli inquirenti. Il riferimento sarebbe alla causa dell’ex consigliere regionale cosentino Pino Tursi Prato per il ripristino del vitalizio dopo la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. «Ricevetti a più riprese somme di denaro, per lo più pari a 1500 euro per volta, consegnati dallo stesso a mani o in contanti a Catanzaro presso l’ufficio della Corte d’Appello o in Commissione tributaria, talvolta a Castrovillari al bar… o presso la mia abitazione di Lamezia Terme». La somma di denaro più cospicua raggiunse i 2500 euro, ma altre volte le dazioni si sovrapponevano in quanto avevano a che fare con la causa del coindagato Antonio Saraco. Petrini fa una serie di ammissioni, tanto più che in occasione della perquisizione scattata il 15 gennaio scorso, data dell’operazione Genesi, fu sequestrato l’originale di una memoria difensiva.

Ma quello era soltanto il capo 1 delle accuse contestate nell’ordinanza di custodia cautelare. Il capo 2 verte su un compendio immobiliare da 30 milioni di euro e Petrini avrebbe assunto l’impegno di interferire sugli altri componenti il collegio al fine di assicurare la riduzione di pene irrogate a Saraco e Maurizio Gallelli nel processo Itaca Free Boat, in cui erano stati condannati rispettivamente a sei anni per estorsione e dieci anni per mafia. Ha confessato, Petrini, di aver accettato da Santoro la promessa di un appartamento a Rho di 200 metri, un’auto Smart per un filio e un braccialetto di brillanti per la figlia. L’appartamento pensava di intestarlo ai loro.

Ma c’è un distinguo. «A differenza di quanto feci in relazione all’incidente di esecuzione di Tursi, non dispiegai alcun fattivo intervento nel processo penale in grado d’appello». Anche se emise un’ordinanza di dissequestro dei beni riconducibili ai familiari di Saraco dopo aver accettato la promessa di denaro fattagli da un commercialista presentatogli da Santoro «quale perito da nominare nei procedimenti di prevenzione patrimoniale trattati dal collegio da me presieduto». I consiglieri a latere, però, «non erano in alcun modo partecipi né consapevoli dell’accordo corruttivo». Ma a che servivano tutti quei soldi? «Per far fronte all’indebitamento che avevo accumulato a seguito della separazione dalla mia prima moglie, per il mantenimento dei mieri figli e, in parte, per una vita piacevole». Ma era di ben 100mila euro l’assegno versato dal figlio di Saraco, Francesco, «a garanzia della corresponsione della somma equivalente a titolo corruttivo in cambio del mio intervento». E non era rischioso? A Santoro, Petrini chiese di custodire il «documento decisamente compromettente trattandosi di assegno a firma dell’imputato per una somma di 10mila euro».

Davanti al pm il giudice indagato lo riconosce in fotocopia; glielo mostrò, del resto, nell’androne di casa sua a Lamezia lo stesso Santoro prima della sentenza di condanna in secondo grado di Saraco. Petrini precisa anche di non aver investito della questione i magistrati di Cassazione. Ma accettò denaro dalla famiglia di ‘ndrangheta dei Gallelli, riconducibile al “locale” di Guardavalle, di cui Santoro aveva assicurato «buone disponibilità economiche». Il capo 4 ha anche a che fare con la decisione di rigettare l’utilizzo dei verbali del pentito Emanuele Mancuso, rampollo della cosca di Limbadi, nel processo Tela del ragno e, tra l’altro, nel suggerire elementi nuovi nell’interesse di un assistito dell’avvocato Marzia Tassone in un processo per stupefacenti pendente in Appello in cambio di prestazioni sessuali dalla professionista, ma in questo caso Petrini dice di aver applicato la giurisprudenza. Il processo si definì favorevolmente per l’assistito dell’avvocatessa con cui Petrini ammette di aver avuto una relazione. Mentre non era sentimentale il rapporto con un’altra indagata, l’avvocatessa Palma Spina, che avrebbe pure agevolato in un procedimento definito alla Commissione tributaria con una declaratoria di cessazione della materia del contendere; negli uffici la donna gli avrebbe consegnato 4000 euro e la somma lui l’aveva chiesta per transigere una controversia con una banca per un finanziamento legato alla ricostruzione post terremoto in Umbria. Ma era una «menzogna».

«In realtà – ammette Petrini – utilizzai parte della somma per una vacanza in Austria e Slovenia fruita da me e dai miei familiari, allo stesso non restituito la somma». Nè Petrini dice di aver restituito a Vincenzo Arcuri, favorito in una causa intentata contro la Presidenza del Consiglio di ministri con cui chiedeva 580mila euro per prestazioni professionali, assegni in tre tranche per poco più di 900 euro. In un altro caso la moneta di scambio da parte di un medico sarebbero stati gli esami radiologici a cui si sottoponeva una sua familiare. E poi olio, fino a 15 litri, per l’accoglimento di ricorsi tributari. Petrini è un fiume in piena. I gamberoni ricevuti da Santoro li aveva già ammessi davanti al gip. Ma c’è dell’altro, sotto quegli omissis.

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