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Carmine Greco

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CATANZARO – La Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza con cui, nel dicembre 2020, il Tribunale penale di Crotone aveva condannato a 13 anni di reclusione il maresciallo Carmine Greco, già comandante della Stazione Forestale di Cava di Melis, competente su una vasta area del Parco nazionale della Sila, nonché ex consigliere dei ministri dell’Ambiente Clini e Galletti.

I giudici di primo grado riqualificarono in concorso esterno in associazione mafiosa l’accusa originaria di partecipazione ad associazione mafiosa e ritennero provati anche i reati di rivelazione di segreti, omissioni d’atti d’ufficio e favoreggiamento. In dibattimento, anche in Appello, il processo è stato istruito dal pm della Dda di Catanzaro Paolo Sirleo (ma il procedimento era stato seguito nella fase delle indagini dal pm Domenico Guarascio). In secondo grado la difesa era stata assunta dall’avvocato Alessandro Diddi.

Vengono, dunque, confermate le statuizioni dei giudici di primo grado che ripercorrono in oltre 300 pagine le risultanze istruttorie giungendo alla conclusione che «può senz’altro affermarsi che sin dal 2011 Greco, prima quale appartenente al Corpo forestale e poi maresciallo dei carabinieri, abbia tenuto rapporti assolutamente non ortodossi e illeciti con diverse imprese boschive – e dunque con i suoi controllati – sostanziatisi in un continuo ausilio alle stesse al fine di evitare controlli della forestale e di coadiuvare gli imprenditori di volta in volta coinvolti nonché nella rivelazione di imminenti attività di controllo di polizia giudiziaria».

Un «modus operandi criminale», secondo i giudici, come quello che Greco adottava con gli imprenditori Vincenzo Zampelli e Bruno Tucci di Acri, condannati nel filone del rito abbreviato del maxi processo Stige contro il “locale” di Cirò in quanto rientranti nel cartello controllato dalla super cosca per il tramite del referente nei boschi Vincenzo Santoro.

Un «ausilio incondizionato» che si concretizzava anche nell’«aggiustare» risultanze di sopralluoghi. «Ancora più esemplare» la «condotta criminale» tradottasi in un «’intercessione diretta» con altri colleghi forestali «al fine di garantire assenza di controlli» nel lotto boschivo in cui operava l’imprenditore di Luzzi Salvatore Gencarelli, ritenuto “vicino” a Santoro. «In odor di mafia» viene considerata anche la condotta tenuta con l’imprenditore Carlo Pedace avvisato da Greco di un sopralluogo da parte di una guardia ex Afor «per permettergli di sistemare la zona prima di un controllo più approfondito».

Ma l’imputato avrebbe compiuto ingerenze su altri forestali anche per evitare una sanzione all’imprenditore Eugenio Federico impegnato nella pulitura di stradelle dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento.

L’«apice», però, lo si raggiunge nel rapporto con gli imprenditori Antonio e Rosario Spadafora di San Giovanni in Fiore, ritenuti esponenti del “cartello cirotano”. La tesi difensiva, secondo cui il rapporto con Antonio Spadafora era legato solo al fatto che questo fosse un “confidente” nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Castrovillari sulla dirigente di Calabria Verde Antonietta Caruso non ha retto neanche al vaglio dei giudici di secondo grado.

Una costola del maxi processo Stige, la vicenda giudiziaria del maresciallo Greco, la cui posizione era emersa nella mega informativa dei carabinieri che condussero le indagini contro la super cosca cirotana. Ma la stessa Corte d’Appello di Catanzaro ha demolito l’impianto della sentenza di primo grado del processo Stige.

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