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Un momento del convegno

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“Mafia. La memoria delle donne”, il convegno organizzato dalla Fondazione Mario Dodaro e dal Quotidiano del Sud, in ricordo delle vittime

COSENZA – Un racconto della memoria fatto di voci strozzate delle vittime di mafia e di voci fiduciose delle associazioni che operano nella lotta alla ‘ndrangheta. Parliamo di “Mafia. La memoria delle donne”, il convegno organizzato dalla Fondazione Mario Dodaro e dal Quotidiano del Sud, che si è tenuto ieri nel salone di rappresentanza del Comune di Cosenza. «Quando lasciamo qualcuno da solo, lo lasciamo aggredibile – così la giornalista Luciana de Luca, moderatrice del convegno – . Da questo principio nasce il bisogno di fare associazione e di impedire che al dolore di una morte di un familiare si debba aggiungere l’omertà e il senso di abbandono provato dalle vittime».

Spesso si crede che dietro a un’uccisione ci sia comunque una responsabilità del singolo o di quella famiglia. E non si pensa invece a quanti innocenti vengano freddati senza un reale motivo e costretti a vedere la propria vita recisa da un colpo di pistola. E solo perché ci si trovava in un momento sbagliato nel posto sbagliato. «Fazio Cirolla era uno di quelli, un operaio della Sibaritide ucciso davanti al figlio di 9 anni per sbaglio, nonostante avesse implorato i suoi sicari. Il suo nome da quest’anno è stato aggiunto nell’elenco delle vittime di mafie» racconta Mara Vincenzi, referente di Libera Cassano. E insieme a lei, Franca Ferrami, referente del presidio Libera Cosenza nella lotta al racket, intitolata al fratello Lucio Ferrami, ucciso nel 1981 ad Acquappesa in un agguato per essersi rifiutato di pagare il pizzo.

«Ho sentito di dare voce alla sua vicenda che per tanti anni è stata dimenticata e restituire a Libera l’elenco di tutti i familiari del territorio» dichiara Ferrami.
Lucio è solo uno dei tanti, purtroppo, che si leggeranno nel lungo elenco di oltre ottomila nomi, a Roma, il 21 marzo. In una veglia nella basilica di Santa Maria in Trastevere. A parlare dell’iniziativa che si terrà tra qualche giorno anche l’ospite in collegamento Daniela Marcone, vicepresidente di Libera nazionale e referente del settore memoria. Ma soprattutto figlia di Francesco Marcone, ucciso a Foggia nel 1995, «negli anni in cui nessuno ancora poteva parlare di mafia».

Sempre su quello schermo in collegamento, con gli occhi lucidi e la voce strozzata, Salvatore Borsellino. Fratello di Paolo Borsellino, che ritorna a quel lontano ’92. «Paolo doveva accompagnare mia mamma dal medico quel giorno, alle 17, informazione che venne intercettata e che portò a piazzare l’ordigno proprio in quella via. Mia mamma da quel giorno visse con il senso di colpa di avere anche involontariamente causato la morte di Paolo. Ma per cinque anni, ogni giorno si affacciava alla finestra a guardare l’albero che aveva fatto arrivare da Betlemme e piantare proprio lì dove era avvenuta l’esplosione. Era non solo un modo – dice – per ricordare chi come Paolo la mafia l’aveva combattuta in prima persona. Ma anche per darsi e dare una speranza».
Non riesce a trattenere la commozione, Salvatore Borsellino, nel sentire quel T’aggiu voluto bene di Reginella, cantata dalla soprano Lucia Toscano. E che Paolo amava intonare al suo pianoforte. La madre di Borsellino è una delle tante donne che hanno perso mariti o figli e che si sono ritrovate private non solo degli affetti più grandi. Ma troppo spesso anche del supporto della giustizia.

«Forse più difficile è essere vittima di mafia se si è un magistrato. Perché non solo si prova la violenza sulla propria pelle. Ma anche le deficienze di un sistema giudiziario nel quale si opera quotidianamente» afferma la magistrata ed ex parlamentare Doris Lo Moro. «È la prima volta che parlo della mia esperienza di vittima di mafia. Ho perso un padre, sensibile educatore e un fratello dai capelli ricci e dal sorriso gentile. Freddati in quella che doveva essere una giornata come altre. C’è stato un lungo processo e i due indagati sono stati assolti. I giudici hanno preferito credere a un testimone chiaramente falso e non alla dichiarazione di chi avrebbe smentito quanto dichiarato e avrebbe potuto fare giustizia».
Conclude sempre Lo Moro: «Ho cercato di seguire gli insegnamenti di mio padre e di vivere una vita degna di lui. Il dolore può rendere fragili o forti, ma non possiamo permetterci la fragilità».

E forse fragile è stato invece il tentativo disperato di Tita Buccafusca, moglie del boss Mancuso di Limbadi. Che decise una notte di recarsi dai carabinieri e di collaborare con la giustizia, spinta dalla disperazione di voler evitare che il figlio potesse fare le spese di quel mondo di violenza in cui era nato e cresciuto. Di lei racconta la magistrata Marisa Manzini, all’epoca procuratrice della Procura distrettuale antimafia di Catanzaro. «L’ascoltammo per ore – ricorda – ma non riuscimmo a distoglierla dal voler poi chiamare il marito per convincerlo a partire e a lasciare quel posto e quella vita. L’indomani mattina volle tornare a casa. Venne trovata morta dopo aver ingerito dell’acido muriatico. Un suicido di ‘ndrangheta. L’acido le bruciò l’esofago, le corde vocali, ciò che le aveva permesso di dare voce alla sua disperata e breve ribellione».

«Libera vuole far capire che esiste un’alternativa e con il progetto “Liberi di scegliere” invita le donne a rivendicare i propri diritti. Tante sono le donne che si sono ribellate e che trovano la forza di farlo», così Domenico Borrello, referente regionale Libera. «La Calabria non è una terra dominata dall’oppressione della ‘ndrangheta – conclude – . Ci sono tanti esempi di donne che quotidianamente si impegnano a contrastare la mafia in prima persona, senza chinare la testa. Le vittime di mafia non devono vivere da vittime. La loro voce è la voce di tutti».

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