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Doris Lo Moro

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Per la prima volta Doris Lo Moro, senatrice e magistrato, parla dell’esperienza di familiare di vittime di mafia, e di un giudice minacciato

È LA PRIMA volta che la magistrata e senatrice Doris Lo Moro si racconta come familiare di vittime innocenti di ‘ndrangheta. Una testimonianza diretta e priva di filtri. Chi parla, nella sala del Comune di Cosenza, durante l’evento del Quotidiano del Sud su “Mafia: la memoria delle donne” (LEGGI L’ARTICOLO), è la figlia del direttore didattico Giuseppe Lo Moro e sorella di Giovannino, appena diciannovenne, uccisi l’8 gennaio del 1985 a Filadelfia. E solo nella seconda parte del suo racconto, emerge la donna di legge arrabbiata e disgustata per la mancata giustizia, per la “violenza dello Stato”. E arriva un particolare agghiacciante: l’ingiustizia subita dai suoi cari è anche figlia di un’intimidazione grave a chi avrebbe dovuto giudicare con imparzialità. «Il nostro caso venne affidato a un giudice bravo e coraggioso – ha detto Doris Lo Moro – Io ero piena di speranza, ma lui mi fece sapere che non poteva occuparsene perché avevano minacciato suo figlio».

«All’epoca – spiega Doris Lo Moro – non ci fu una presa di coscienza vera. La politica non capì qual era il significato di quelle morti. La mattina in cui persero la vita, c’era mio fratello alla guida dell’auto perché papà era stato operato a un occhio di cataratta e non vedeva molto bene. Io mi ero sposata appena una settimana prima, il 22 dicembre, e non ero in Calabria. Ma quel giorno li avevo sentiti presto perché dovevo rientrare in macchina e c’era un tempo terribile, a Roma nevicava, e loro erano un po’ preoccupati per me. Papà e Giovannino, come ogni mattina, si misero in macchina per andare a scuola. Lungo la strada però, incontrarono una vettura. Forse ci fu un piccolo incidente: sulla loro auto rimasero tracce di vernice di un’altra macchina. Si disse che c’era stato uno screzio con l’altro automobilista e che, probabilmente, era andato a finire male perché quello era un uomo dalle armi facili. Si trovò una Fiat 127 celeste in riparazione da un carrozziere che era stata nella disponibilità di una delle persone sospettate. La vernice trovata sull’auto di mio padre, dopo gli esami tecnici, risultò compatibile con quella individuata dagli investigatori. Furono ascoltati dei testimoni che confermarono di aver visto quella macchina allontanarsi dal luogo del duplice omicidio e poi, si seppe anche di alibi costruiti ad arte e di tante, troppe false testimonianze. Questa, comunque, fu l’unica ipotesi investigativa fatta. Io ancora oggi non posso additare nessuno per la morte di mio padre e mio fratello perché le due persone sospettate che sono rimaste in carcere per tre anni, con importanti precedenti penali, sono state assolte e dalle sentenze non è emersa nessuna verità, né è mai stata ipotizzata un’altra pista. E da quel momento ho guardato ciò che mi circondava con occhi diversi».

«Mio padre, d’altronde, – continua – non aveva in quel momento un ruolo politico, né emerse un movente politico. Io ricevetti una telefonata con la quale venivo informata che c’era stato un incidente grave e quando arrivai alla stazione di Lamezia Terme, mi trovai davanti centinaia di persone che mi guardavano e piangevano. Capii immediatamente che era accaduto qualcosa di terribile ma solo dopo venni a conoscenza di cosa si era abbattuto su di noi e fu un dramma nel dramma perché considerato il tipo di persona che era mio padre, sempre molto dolce, che portava le poesie nel portafoglio, fu come se avessero reciso un fiore. Provai una miscela esplosiva di sensazioni: prima di tutto dolore ma anche incertezza, paura. Per una famiglia normale non è facile essere catapultata in un duplice omicidio. Io da allora ho sempre convissuto con la paura intesa quasi come sensazione fisica. Mio fratello morì all’istante, io lo vidi, sorrideva. Lo colpirono appena scese dalla macchina. Mentre mio padre se ne andò in maniera traumatica perché intanto vide uccidere il figlio e quando tentò di allontanarsi fu raggiunto e finito con molti colpi di pistola. Papà aveva il volto di una persona addolorata, terrorizzata. Al loro funerale partecipò tantissima gente. Tutta la città si mobilitò perché fu subito evidente che si trattasse di due vittime innocenti».

Nessuna giustizia per Giuseppe e Giovanni Lo Moro e un dolore sempre vissuto in privato sia per pudore che per non prestare il fianco a facili strumentazioni politiche. Solo nel 2018 l’associazione “Libera” li ha inseriti nell’elenco ufficiale delle vittime innocenti delle mafie e da quel momento, ogni 21 marzo, durante la Giornata nazionale della memoria e dell’impegno, i loro nomi vengono scanditi in tutte le piazze d’Italia. Nello stesso anno al direttore Lo Moro è stata intestata una scuola di Gizzeria in provincia di Catanzaro. «Fare il magistrato era già un desiderio che avevo coltivato con mio padre – conclude Doris Lo Moro – ma per come ho vissuto il suo processo, tra la difesa degli imputati e la ricerca della verità portata avanti dal pubblico ministero, non ebbi dubbi da che parte stare. Io da ragazza lavoravo in banca e sono stata una studente lavoratrice. Ero femminista e anelavo alla mia indipendenza per questo mi davo molto da fare ma quando morì papà decisi di dare forma a quell’antico progetto. Inizialmente per noi fu molto difficile accettare la scomparsa dei nostri cari ma poi piano piano cercammo di riprenderci. I miei fratelli riuscirono a laurearsi tutti, nonostante fosse venuta meno la loro figura di riferimento. Per mia madre invece, la morte del marito e del figlio più piccolo è stato come un morire piano piano. Lei è scomparsa dodici anni dopo ed era stanca, profondamente stanca di convivere con quel dolore che non l’aveva mai abbandonata un attimo».

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