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Maurizio Scorza

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CASTROVILLARI (COSENZA) – Nel 2013 era scampato alla morte che lo attendeva sotto casa della sua compagna, a Castrovillari. Quattro proiettili piantati nel corpo di Maurizio Scorza non erano bastati a ucciderlo, ma nove anni più tardi – ed è la prima suggestione di questa storia – a qualcun altro è riuscito di prendere meglio la mira.

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Se ne va così uno dei personaggi più enigmatici del sottobosco criminale della Sibaritide, pluricitato in informative di polizia giudiziaria che raramente, però, sono sfociate in imputazioni concrete e ancor meno in condanne.

Originario di Cassano ma residente a Villapiana, Scorza, nom de crime “U cacaglio”, aveva 57 anni, già titolare di un supermercato, aveva lavorato per anni come bracciante agricolo e per lo Stato italiano era a tutti gli effetti un pensionato. Tre figli avuti dal primo matrimonio, era convolato a nozze, di recente, con la tunisina Hanane Saadi, da tutti intesa come “Elena”, la donna che lo ha seguito nel suo tragico destino, proprio alla vigilia del suo quarantesimo compleanno.

Lei incensurata, lui dicevamo con diversi pregiudizi di polizia alle spalle, seppur molto datati. Nel 2001 incassa una condanna per estorsione e due anni più tardi finisce nella rete di “Anje”, la maxioperazione antidroga sull’asse italo-albanese con quasi cento indagati. Scampa all’accusa di associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico internazionale e da allora, niente più incriminazioni. Solo sospetti.

Un rapporto di polizia, coevo all’attentato da lui subito, lo inquadra come “spacciatore al servizio del clan degli zingari” sulla scorta delle dichiarazioni del pentito Pasquale Perciaccante, addirittura con l’incarico di trattare l’acquisto di grossi quantitativi di droga dalla famiglia Femia di Reggio Calabria. Nello stesso periodo, il suo nome rimbalza anche nell’inchiesta sulla straziante vicenda del piccolo Cocò. “Chi ha sparato a Maurizio deve morire” è il brandello d’intercettazione che suggerisce agli inquirenti una possibile pista, e cioè che a sparare a Scorza, pochi mesi prima, fosse stato proprio Giuseppe Iannicelli. E che un filo rosso collegasse la sparatoria di via dell’Industria con la terribile esecuzione di Cocò, di suo nonno e della sua compagna Ibtissam Touss.

Anche in questo caso, alle ipotesi non sarà mai associata alcuna certezza, anche perché le indagini prenderanno poi altri direzioni, e così il collegamento fra tali eventi e la tragedia di poche ore fa, si limita a correre sul filo di altre suggestioni. Si chiamava “Scorza”, infatti, la masseria in cui, il 16 gennaio del 2014, viene rinvenuta l’auto ancora fumante con dentro i resti di Iannicelli, del nipotino e di Ibtissam, sangue magrebino proprio come Elena. Sangue innocente. Chi possa aver voluto la loro morte e perché resta, al momento, un rebus difficile da decifrare.

Qualcuno ha completato il lavoro lasciato a metà nel 2013? Possibile. Diversamente, la sua morte – nessun dubbio sul fatto che fosse lui il vero bersaglio dei sicari – è legata a qualche sgarro più recente, punito nel modo più brutale possibile dai nuovi boss locali? Più probabile. Di certo c’è che i nomi di Maurizio ed Elena si aggiungono all’elenco luttuoso dei caduti di una guerra silenziosa, a bassa intensità, che da qualche anno a questa parte insanguina la Sibaritide. Una lunga scia di delitti come quello di poche ore fa in contrada Gambellona. Tutti delitti irrisolti. E questa non è una suggestione.

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