X
<
>

Condividi:
16 minuti per la lettura

LA politica calabrese e quella italiana perdono uno dei suoi più illustri esponenti: Dario Antoniozzi (LEGGI LA NOTIZIA).

Riproponiamo di seguito una sua intervista al Quotidiano del Sud che uscì nel maggio del 2009. Un racconto della sua vita e della sua lunga e grande esperienza politica.


Lo chiama il laboratorio. «Qui ci sono più di sessant’anni di storia della Repubblica italiana». Una scrivania, un divano di pelle marrone scuro, «lì si è seduto Aldo Moro» e di fronte un caminetto con una mensola che sorregge il busto del padre, Florindo Antoniozzi, «era Cavaliere del lavoro, con lui la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania fu per 10 anni la quinta su 90 in Italia», due foto della madre Nicolina, «in questa aveva trent’anni e in quella novantacinque» e un’immagine di Antonio Segni, punto di riferimento fondamentale. Al centro della stanza un tavolino con sopra tanti libri e alle pareti libri e ancora libri, «perché senza cultura non può esserci sviluppo».

È come un piccolo porta gioie, il laboratorio, pieno di monili da mostrare con orgoglio, pietre preziose che raccontano di una vita segnata dalla passione per la politica. «Ci sono 12 enciclopedie, c’è la Britannica, la Diderot-D’Alem – bert, l’enciclopedia dell’agricoltura, della Nato, dei Beni culturali, della vita del Parlamento italiano, del Fascismo. E poi c’è la storia della Democrazia Cristiana. Lì ci sono le memorie di Churchill, le ho lette tutte».

Tra tanti libri uno spazio importante, quello che mostra, in cornice, il diploma di laurea in Giurisprudenza e la medaglia d’oro per la Cultura.
«Me la conferì Pertini. Quando ero ministro dei Beni culturali comprai per lo Stato, usando il diritto di prelazione, Fontana di Tre vi, perché la vasca è del Comune, ma il palazzo era della famiglia Poli che lo cedette a una banca e da questa io acquistai». La fotocopia dell’atto, datato 20 dicembre 1978, è lì sulla scrivania.

Cultura e amore per la natura. Sul terrazzino della casa di via Nomentana 373 c’è una propaggine dello studio “laboratorio” di Dario Antoniozzi, una delle figure di primo piano della storia politica calabrese e nazionale della Prima Repubblica. Una piccola serra, piante coltivate con cura, soprattutto quelle dei tulipani perroquet, «si chiamano pappagalli», riscaldate dal bel sole primaverile di Roma che entra e abbraccia con un delicato riflesso le foto di famiglia: la moglie Ada, che ha lasciato un vuoto incolmabile, i tre figli Alfredo, Florindo e Nicola, «ho voluto che nascessero tutti in Calabria perché i figli di un deputato calabrese dovevano essere calabresi, mi sembrava un dovere etico» e i cinque nipoti.

«I più grandi hanno da 18 a 25 anni e il più piccolo ne ha cinque e mezzo».
Nato a Rieti ma cresciuto e formatosi in Calabria.

«Sono del ’23, ho 86 anni e lo dico con un pizzico di civetteria. Era l’aprile del ’29 quando arrivai a Cosenza. Avevo cinque anni. Mio padre, che era ragioniere capo alla Cassa di Risparmio di Rieti, vinse il concorso di ragioniere generale alla Cassa di Risparmio di Calabria Citeriore e si trovò a fronteggiare la brutta crisi economica».

Mentre racconta, seduto in poltrona, con ai piedi il piccolo yorkshire Carletto che gli fa compagnia da dieci anni e nel frattempo si accanisce sul suo cuscino, il tono si accalora. Il ricordo della figura paterna illumina d’orgoglio lo sguardo. «La banca cattolica di Calabria, che aveva come direttore generale Salvatore Perugini, e la Banca commerciale, guidata dal barone De Ciutis, stavano fallendo. Papà le assorbì nella Cassa di Risparmio e assorbì anche il personale. Andò dal Governatore di Bankitalia a chiedere 50 milioni in prestito, senza interessi, per soddisfare i depositanti delle due banche e non determinare il ritiro dei depositi dalla Cassa di risparmio e così salvò i risparmiatori della provincia di Cosenza».
La memoria non ha perso neppure il più piccolo frammento di una vita vissuta con pienezza.

Ore, minuti, secondi. I minimi particolari affiorano lenti e precisi. «A Cosenza ho fatto quasi tutte le scuole. La prima elementare in via Milelli, ex via Balilla, con la maestra Ester Sartinges, le altre classi in piazza Antonio Toscano, dove adesso c’è la Biblioteca nazionale, con il professore Antonio Lanzoni. Il ginnasio l’ho fatto al Telesio e ho avuto come professore don Luigi Nicoletti».

Erano i tempi del regime, quelli. In ogni aula c’erano gli altoparlanti ed erano obbligatorie alcune ore di lezione di dottrina del fascismo.
«Durante quelle lezioni i docenti dovevano aprire gli altoparlanti per farle ascoltare.

Qualcuno sparse la voce che don Nicoletti non lo faceva. Venne disposta un’inchiesta e mandarono gli ispettori da Roma a interrogare gli alunni. Io e altri undici dichiarammo il falso per difenderlo». Poi il liceo, in collegio a Vibo Valentia. Una decisione del padre di cui ancora oggi non conosce il motivo. «Chissà, forse ero discolo. Mi disse: “È bene che tu vada”». Severità e rigore, un insegnamento che ha forgiato la sua crescita. «Mio padre e mia madre erano molto severi ed è una cosa opportuna la severità dei genitori e la famiglia, quando funziona. E la nostra funzionava».

Quattro fratelli: lui, Dario, il primo, Marisa, morta quattro anni fa, Renata e Giorgio, «più piccolo di me di 19 anni. Ma c’è una ragione».

La ragione di un amore sbocciato in giovanissima età alla fine della guerra. «Mia madre si sposò a 16 anni. Era di Lecce. Ci fu Caporetto e l’esercito aveva bisogno di giovani ufficiali.

Mio padre, e questo dovrebbe essere di insegnamento ai giovani di oggi, venne chiamato alle armi quando aveva solo 17 anni. Faceva il secondo anno di istituto tecnico. Tre mesi di corso e divenne ufficiale. Come sottotenente di fanteria andò sul Pasubio, al comando di un plotone di gente che forse aveva il doppio dei suoi anni. Mi raccontò di quando entrò a Trento liberata. Ma era rimasto al secondo istituto tecnico. A guerra finita, quelli degli anni precedenti furono congedati e gli altri, i richiamati negli ultimi due anni, li mandarono in Puglia a dissodare la terra con le migliaia di proiettili inutilizzati. Ogni venti metri un proiettile. Li facevano saltare e usciva fuori la terra e con le pietre facevano i muretti, molti di quelli che ci sono ancora oggi in Puglia.

Lì conobbe mia madre, la sposò e mentre lavorava alla Cassa di Risparmio, dove fu assunto come impiegato, si laureò in Economia, nel ’26. Per la guerra aveva perso nove anni».

Un amore grande quello dei suoi genitori, come l’amore per sua moglie Ada, conosciuta quando aveva 14 anni. «Era il 21 dicembre del ’41». Ecco la memoria che si riaffaccia e non sbaglia. «Avevo 17 anni. Ci siamo sposati dopo 11 anni di fidanzamento». Uno di quelli di un tempo, iniziato con uno scambio di sguardi durante la celebrazione di una messa e fatto di conversazioni dalla finestra per non farsi scoprire, alla Romeo e Giulietta.
Amore per la famiglia e passione per la politica. Deputato per sette legislature, dal 1953 al 1980, quattordici volte sottosegretario e cinque ministro, parlamentare europeo dal ’79 all’89, la paternità della legge per la realizzazione degli impianti sportivi e della scheda elettorale sulla quale hanno votato milioni di italiani, quando gli chiedi com’è iniziato il percorso il racconto si fa denso e intenso, si popola di personaggi e storie che sono storia nella storia. E si ritorna alla cultura.

«Già in epoca fascista, ero avanguardista, partecipavo ai littoriali per la cultura. Ho sempre studiato molto storia e geografia, quindi avevo una propensione naturale». La storia appresa sui libri e l’approccio con la geografia iniziato con un’altra passione coltivata sin da piccolo, a 7- 8 anni, quella per i francobolli. «Ne ho uno che la Russia sovietica dedicò a Palmiro Togliatti. E’ grazie ai francobolli che a dieci anni conoscevo i nomi delle capitali e le monete. I francobolli hanno seguito la storia».

Già, la storia, specie quella vissuta in prima persona.
Non dimentica quel 19 luglio del ’43 quando su Roma caddero le bombe.

Le vidi cadere».
Non dimentica papa Pio XII, abito bianco e braccia aperte che il giorno dopo, in piazza San Lorenzo, fece «un discorso di pace ed ebbe applausi da tutti, persino dagli ufficiali. Non fu un caso se quattro giorni dopo cadde il fascismo».
Una sensazione rimasta intagliata nella mente come un’incisione fatta su legno con uno scalpello. Strana, come quel disorientamento che lo attanagliò subito dopo, al ritorno a Cosenza. «Lì c’erano due personaggi importanti: Pietro Mancini, già deputato del ’19, socialista e Fausto Gullo. Due persone egregie.
Frequentai tutti i convegni di tutti i partiti, dal Movimento sociale al Partito comunista per capire qualche cosa». Una peregrinazione durata un anno, fino all’intervento del vecchio professore Luigi Nicoletti, lo Sturzo calabrese.
«Mi disse: Dario, so che non riesci ad orientarti.
Sappi che i principi socialisti sono stati ampiamente propagandati dai socialisti, quelli liberali, nel senso della libertà e della democrazia sono presenti nelle coscienze di tutti. C’è un solo partito che li mette insieme tutti, anzitutto per una propria vocazione antica della solidarietà cristiana, ed è la Democrazia cristiana. Mi convinse e nel 1947 mi iscrissi».
Iniziò così un’attività intensa di impegno sociale. «Salvatore Perugini, che era diventato vicedirettore generale della Cassa di Risparmio, insieme al comunista Salvatore Giorno, mi disse che dovevo occuparmi degli enti locali. I Comuni erano amministrati come si poteva amministrare in quell’epoca. Fondai allora l’Upel, l’associazione provinciale degli enti locali per fornire la consulenza per l’impostazione dei bilanci».
Quelli erano anche gli anni in cui le cooperative di sinistra riuscivano ad avere dalla Prefettura le terre. «Imparai cosa e come fare e con la collaborazione di don Umberto Altomare, parroco di San Giovanni in Fiore, diventato poi vescovo, costituimmo 52 cooperative agricole per fare avere ai contadini la terra».

Questa attività cooperativa attirò l’attenzione di De Gasperi che nel ’51 andò in Sila. «Mi invitò. Era preoccupato per la riforma fondiaria.
La prima, va ricordato, venne fatta da Fausto Gullo con la legge del 31 dicembre 1947, la seconda, che riguardava l’Opera Sila, venne fatta da Segni, legge 12 maggio 1950. Era un atto di giustizia, ma De Gasperi aveva avuto delle informazioni politiche che lo preoccupavano. I comunisti andavano ai convegni e dicevano: vi hanno dato solo un pezzo di carta, la terra ve la diamo noi con le cooperative».

La riforma fondiaria la terra la dava dopo dieci anni. Espropriare significava dividere un latifondo, spezzettare. Ma era necessario.
«La riforma fu positiva perché la maggior parte delle terre erano incolte. Arrivavano dalla guerra migliaia di soldati e le occupazioni illegittime dei latifondi implicavano l’intervento del governo con l’esercito. A Melissa ci furono i morti. La valutazione della legislazione va sempre riferita al momento storico in cui viene fatta».

Gullo, De Gasperi, Segni. Il giovane Antoniozzi procede spedito con un impegno e un entusiasmo che lo portano ben presto a sedere sugli scranni del Parlamento. Dopo il plebiscito ottenuto a due congressi provinciali del partito, la prima elezione alla Camera arriva nel ‘53. Su una cartellina in pelle, poggiata su un ripiano all’ingresso del laboratorio, c’è scritto in rilievo “sottosegretario alla Presidenza del Consiglio”. La mostra con orgoglio. «Ho terminato di mia volontà nel ’79, quando ero ministro dei Beni culturali, perché ero stato eletto al Parlamento europeo. Andreotti mi disse, “Che fai, tutti cercano di diventare ministri”».

Ma c’era l’Europa e non era un orizzonte lontano.
«L’Europa è più importante per il futuro, risposi».
L’Europa l’aveva toccata con mano dal ’63 al ’70 grazie a Moro che lo mandò con funzione di ministro, ma con “qualifica” di sottosegretario a Bruxelles a 80 consigli dei ministri dell’Agricoltura.
«Ti devi occupare del Mezzogiorno. Olio, vino, grano, agrumi. E così ho fatto. Ho realizzato l’integrazione olio, il regolamento dei vini, mi sono occupato del grano e degli agrumi».

Sette anni di notti in treno. «Si partiva il lunedì per arrivare il martedì mattina e si rientrava il venerdì sera. Il fine settimana serviva per mantenere i contatti con il collegio di riferimento.

Lì capii che cos’era l’Italia, così provinciale, e cos’era la Calabria».
Un sospiro di rammarico e il flusso dei ricordi riprende. «Mi disse, vai come sottosegretario perché così potrai durare tanti governi. Ti passeranno sulla testa molti ministri. Sette ministri mi passarono sulla testa, ma con me Moro garantì la continuità del lavoro, della politica agricola».

Non è difficile immaginarlo, non senza emozione, Moro, mingherlino, seduto su quel divano di fronte al caminetto. «Quella sì che era gente seria, onesta. Uomini che avevano senso di responsabilità perché rispondevano a un partito importante. Con lui a Bari feci l’esame di Filosofia del diritto».

E poi De Gasperi, Segni.
«Ebbi modo di conoscerlo un po’, De Gasperi. Nel luglio del ’53 si presentò in Parlamento per ottenere la fiducia e fu bocciato. A settembre sedeva tra i banchi della Camera e per unmese io gli sedetti accanto grazie a una piccola furbizia ed ebbi modo di conversare con lui».

La furbizia di osservare quale posto sceglieva.

«L’aula è fatta a spicchi d’arancia e la Dc vicino alla scaletta centrale aveva un po’ di posti sulla sinistra. De Gasperi aveva scelto il secondo in alto, dove c’era il microfono. Andavo mezz’ora prima così gli capitavo vicino». Un sorriso spezza il filo del racconto. È il ricordo di un episodio divertente che vide protagonista la pungente ironia del grande statista.

«Ci fu un battibecco tra un deputato democristiano che era stato fascista e uno del Movimento sociale. De Gasperi alzò lo sguardo dagli occhialini e chiese che cosa stesse succedendo. Quando glielo spiegarono il suo commento fu laconico: “Lite in famiglia”. Ma come, presidente, gli replicò chi lo aveva informato, quel deputato ha la medaglia di bronzo al merito partigiano. Quello, disse lui, di bronzo non ha solo la medaglia».

Altri tempi, altri uomini, altri insegnamenti. La storia riavvolge il nastro e riporta agli inizi, quando l’amore per la politica si faceva strada tra le passioni giovanili, il tennis, lo sci. «Con alcuni amici costruimmo il primo campo da tennis a Cosenza e andammo ai campionati nazionali ad Alessandria, ma fummo battuti ». Indimenticabile il concorso per scegliere il motto del club.

Tra i dieci presentati vinse quello della signora che sarebbe poi diventata donna Vittoria Mancini, «al di là di ogni rete, lo sport ci unisce». E poi lo sci.
«A 15 anni sono stato campione di discesa obbligata per velocità raggiunta a Camigliatello, quando si andava con il trenino con i balconcini e due strimpellatori napoletani. La ferrovia fino a Camigliatello fu fatta costruire da Fausto Gullo e la parte che va fino a San Giovanni in Fiore dal quadrumviro fascista Michele Bianchi».

Roma, l’Europa e la Calabria, che ritorna sempre.
Ritorna quando il pensiero va a quel gruppo che si sarebbe poi distinto nell’agone politico nazionale. Misasi, Antoniozzi, Nucci, Buffone.
«I primi tempi ci portavamo insieme avanti con le preferenze». I primi tempi, fino a quando le correnti non li separarono.

«Nell’89 non fui rieletto al Parlamento europeo perché così volle Misasi. Lo fece per organizzarsi meglio in Calabria e non capì che in Europa avrei potuto essere più utile. Si mosse senza considerare che abbandonando il Parlamento italiano anni prima avevo lasciato campo libero. Ma io, insieme a Martens nel ’76 ho fondato il Partito popolare europeo e ancora oggi, a vent’anni di distanza, partecipo all’attività, ai convegni e ho rapporti con tutti in modo pacifico».

La nota di amarezza lascia subito il posto alle battaglie condotte insieme per la Calabria, sempre la Calabria.

L’autostrada Salerno-Reggio, l’Unical, la ferrovia Cosenza-Paola.
«La Salerno-Reggio tecnicamente non è un’autostrada, questo nessuno lo sa. È una superstrada Anas con caratteristiche autostradali, senza pedaggio. Come spesso succede al Sud, per le solite beghe e le solite liti calabresi, erano stati fatti scadere i termini per la vendita delle obbligazioni Iri con cui si creava il capitale per realizzare le autostrade. Facemmo una riunione privata Mancini, Misasi, Nucci, Colombo e io. Colombo disse a Mancini: “Sono pronto a dare i fondi all’Anas perché faccia la Salerno-Reggio”».

Un comune accordo per il bene della regione, come fu, con qualche ostacolo in più, anche per l’Unical. «Fu necessario un lavoro complesso per trovare l’intesa tra le tre province di Cosenza, Reggio e Catanzaro. Bisogna però ripristinare la verità storica, perché un conto è chiedere l’università e un conto è realizzarla. A chiederla furono tanti, in primo luogo Guarasci, ma la realizzazione avvenne quando Misasi era ministro della Pubblica istruzione e io sottosegretario alla Presidenza del Consiglio».

Arriva ancora in soccorso la memoria che non sbaglia e cita il testo di una lettera di Gui, ministro prima di Misasi. “Caro Dario, per l’università stiamo procedendo secondo le nostre intese”.

«Anche Francesco Principe ebbe un ruolo importante per la scelta del luogo, Arcavacata.
Mancini avrebbe preferito Piano Lago, ma non fece una battaglia su questo». L’importante era ottenere il risultato: una struttura con il campus, unica in Italia.

«Anche la ferrovia Cosenza- Paola fu il risultato di un comune sforzo. È nata da due tragedie avvenute lungo quella cremagliera, la più grave durante la Seconda guerra mondiale.

Nel ’59 Segni andò a Cosenza per l’inaugurazione del palazzo di città. Io ero nel governo come sottosegretario. In accordo con il sindaco Clausi Schettini e con il senatore Nicola Vaccaro ponemmo il problema. Segni prese nota e mesi dopo il disegno di legge era pronto. Poi il governo Segni cadde e anche io, ma alla Camera ebbi l’incarico di curare la relazione sulla Cosenza-Paola. Arrivammo alla legge ma era necessario un progetto che richiese tempo perché quella tratta era piena di frane interne. Allora Mancini, in qualità di ministro dei Lavori pubblici, fece la legge di integrazione dei fondi e portò avanti la cosa fino alla realizzazione».
Mancini e Principe, due personalità importanti e così diverse.

«Con Mancini i rapporti erano normali – dice dopo una breve pausa di riflessione -. All’inizio lui fu molto critico con me, forse per via della Cassa di Risparmio e del ruolo di mio padre, poi capì e mi disse che era una cosa seria. Mi mandò un appunto personale in cui mi annunciava che avrebbe voluto intitolare a papà un luogo di Cosenza».

E Principe e Nucci? «Con Principe ci fu un rapporto eccezionalmente buono e amichevole. A lui giocarono sempre un brutto tiro. Lo mandarono al governo ogni volta che c’era un democristiano e nello stesso collegio. Lo mandarono all’Agricoltura quando c’ero io e alle Partecipazioni statali quando c’era Misasi. Anche Guglielmo Nucci è stato un buon parlamentare. Serio, onesto, perbene. Veniva da un’esperienza giuridica, con Gullo, e burocratica. Era stato direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro».

Una vita e tante storie che rimandano l’una all’altra, come una matrioska. Una visione planetaria, «sono stato in 75 Paesi del mondo», e un lungo cammino su un tracciato di riferimento come una bussola, la Calabria. Una sola amarezza: quanta ricchezza e potenzialità sprecate per litigiosità e individualismo.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE