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Lucio Aiello, ritornato a casa dopo più di un mese di ricovero in ospedale

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COSENZA – Il suo 72mo compleanno, lo scorso 13 dicembre, lo ha trascorso in un letto d’ospedale, nel reparto di Pneumologia dell’Annunziata di Cosenza. «Quel giorno ho ricevuto messaggi da tanti amici, che si dicevano dispiaciuti del fatto che io fossi costretto a passare lì la mia festa. Per me invece era un’enormità: se ero in quel letto significava che ero sopravvissuto».

Lucio Aiello, medico ospedaliero in pensione, ha contratto il Covid a fine ottobre. In ospedale è arrivato il 10 novembre e ne è uscito solo una settimana fa, dopo oltre un mese di degenza, trascorsa tra Pneumologia e Terapia intensiva.

Ora è a casa, dove sta lentamente recuperando le forze (ha perso più di dieci chili) e la consueta verve. Ma dell’esperienza vissuta in quest’ultimo mese – oltre a una modesta insufficienza respiratoria che richiede di tanto in tanto di assumere ossigeno – porta dietro sensazioni e ricordi vividi.

Sa com’è venuto a contatto con il virus?
«Sì, abbiamo ricostruito la catena del contagio. Devo dirle che tanto io, quanto mia moglie e mia figlia siamo sempre stati rigidi nel rispetto delle procedure. Mia figlia, poi, ha avuto un incarico annuale, in un liceo di Corigliano. In quel periodo i contagi erano diminuiti e forse abbiamo commesso un errore di valutazione. Ha viaggiato in auto con due colleghe, sempre con la mascherina, ma non è bastato. Una di loro è risultata positiva al Covid, ha avvisato mia figlia e da lì anche noi abbiamo fatto il tampone, in una struttura privata».

E ha confermato il contagio?
«Il mio risultò negativo. L’infezione era troppo recente. Dopo qualche giorno, però, sono arrivati i sintomi: tosse, febbre, astenia. Intorno al 9 novembre sono andato al Pronto Soccorso. Mi sono trovato in una sala d’attesa affollata, non c’erano posti liberi nei reparti. Dopo un pomeriggio trascorso inutilmente su una sedia, sono andato via».

Il giorno dopo, però, è tornato.
«Sì, e ho dovuto chiamare il 118. Mi hanno ricoverato in pneumologia, ma la situazione è peggiorata rapidamente. Sono passato quindi prima in un reparto di sub-intensiva e poi in Terapia intensiva».

Per quanti giorni è rimasto lì?
«Sette giorni. Sono tanti. Non ho molto ricordi, avevo perso conoscenza, ma porto ancora con me quella brutta sensazione. Al risveglio, poi, ero in uno stato confusionale, soffrivo di allucinazioni, non sapevo dov’ero e credevo d’essere da tutt’altra parte, avevo anche crisi d’identità».

C’è un momento in cui ha capito che ce l’aveva fatta?
«Forse quando sono tornato in Pneumologia. C’era un’infermiera che mi aveva accolto quando ero arrivato la prima volta in reparto e credo si ricordasse di me in servizio. È quasi svenuta: probabilmente non si aspettava, viste le mie condizioni, che superassi la terapia intensiva. Lì ho capito quanto gravi erano le mie condizioni».

Com’è andata poi la degenza?
«Non potevo ancora alzarmi dal letto. Gli operatori cambiavano le lenzuola con me dentro. Continuavo a soffrire di allucinazioni: vedevo il mio compagno di stanza camminare sulle pareti o credevo di essere nell’antica Roma. È stata dura e devo dire che l’assistenza in quei giorni, con i reparti stracolmi, aveva qualcosa di miracoloso. Sono stati tutti professionali, ma al tempo stesso non dimenticavano di mostrare ai degenti solidarietà e vicinanza, anche se eravamo tanti e il tempo per fare tutto davvero poco».

Ricorda chi era ricoverato con lei?
«Sì, un giovane di 44 anni. Sa, a un certo punto ci sorvegliavamo a vicenda, quando dormivamo. Una notte, si è rotto il mio erogatore dell’ossigeno e ha voluto a tutti i costi che prendessi la sua maschera, mentre aspettavamo l’arrivo degli operatori».

Lei soffre di altre patologie?
«No, solo una broncopatia cronica che non mi ha mai impedito, però, di andare per sentieri in Sila, da Camigliatello a Montescuro. Spero di poterlo fare ancora».

A chi nega l’esistenza del virus cosa risponde?
«Che è un incosciente. I problemi non si risolvono negandoli. I contagi, da un certo punto in poi, sono stati colpa nostra. Qualcuno ha descritto la pandemia come una guerra. È vero, lo scenario è quello. Manca, però, la solidarietà. Si dice ‘muoiono solo gli anziani o chi ha comorbilità, pazienza, l’economia non si può fermare’. Se anche fosse vero, e non lo è, dovremmo concludere che anziani e ammalati non hanno diritto di vivere? Io capisco le difficoltà di chi ha un’attività e sarò il primo a contribuire, nelle forme che si metteranno a disposizione. Ma la vita è un diritto fondamentale e va tutelata. Non possiamo mettere a rischio la nostra e quella degli altri per acquistare un regalo di Natale».

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