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Cani e Persone: la storia del doberman Joy, di Alessandra e di suo marito Antonio

“Mi innamorai dei dobermann da adolescente perché il mio amico Paolo ne aveva uno, nero, che lo seguiva dappertutto e aveva con lui un rapporto simbiotico. Ho sempre pensato che un giorno lo avrei avuto anch’io”.

Inizia così il racconto di Alessandra Cocchiero, cosentina, che con suo marito Antonio Giordano, il dobermann, anni dopo, l’hanno preso per davvero, marrone però, e oggi fa parte della loro famiglia seppur paralizzato da qualche tempo, a causa della Sindrome di Wobbler, una malattia degenerativa che crea l’instabilità delle vertebre cervicali e lo schiacciamento del midollo spinale. Ma Joy, nonostante l’immobilità, continua a volere e dispensare amore attraverso una continua interazione con le persone che da quando aveva pochi mesi si sono prese cura di lui.

“Io devo tanto a Joy – spiega Alessandra -. Decisi di prenderlo dopo la morte di mia madre che per molto tempo, a causa di una malattia, fu costretta a letto. Questa condizione la faceva soffrire molto, le aveva tolto ogni speranza di guarigione, e a parte l’assistenza che da figlia non le ho mai fatto mancare, ciò che trovavo particolarmente gravoso era non riuscire a strapparla alla disperazione e alla rabbia che l’assalivano improvvisamente e che erano dettate dalla sua condizione”.

DOLORE, STANCHEZZA, IMPOTENZA POI LA SVOLTA: JOY E ALESSANDRA

Dolore, stanchezza, impotenza. Alessandra per anni dovette fare i conti con situazioni che le apparivano addirittura più grandi di lei, e quando tutto si concluse, seppur ancora fragile e sofferente, decise di dare una svolta alla sua vita e le ritornò in mente quel dobermann che aveva tanto desiderato da ragazza.

Convinse suo marito a prenderne uno ma quando si recarono in un’altra regione per conoscerlo, qualcosa la frenò: “Sì, quando mi trovai davanti quel cucciolo, compresi improvvisamente che non ero ancora pronta. Mi spaventava l’idea di dovermi assumere una responsabilità tanto grande e chiesi a mio marito di aspettare”.

Alessandra e Antonio ritornarono a casa senza cane, sentendosi quasi sconfitti. Passò un mese, un mese di confronti persino accesi, di entusiasmi e rinunce  prima che Alessandra decidesse di andare a rivedere quel cucciolo marrone che comunque l’aveva colpita. “Ci sentivamo finalmente pronti. Durante il viaggio Antonio e io decidemmo il nome da dargli – racconta -. Doveva contenere in sé la rinascita di cui avevamo bisogno dopo un lungo periodo di dolore. Joy, non potevamo che chiamarlo Joy”.

I DUBBI POI: «JOY È RIUSCITO A FAR EMERGERE LA PARTE MIGLIORE DI ME»

 

Non fu facile per Alessandra mettere in pratica i suoi buoni propositi, spesso veniva assalita dal dubbio di non essere capace di gestire quel cucciolo che a parte la vivacità, le chiedeva costantemente affetto e attenzione. Lui, Joy, in cambio, indicava la strada, le mostrava come fare attraverso un attaccamento incondizionato che non concedeva repliche. Perché i cani, si sa, riescono a leggere l’anima, e puntano dritti all’obiettivo quando è necessario. “Joy – dice Antonio – è riuscito a far emergere la parte migliore di me. Costringendomi quasi, ad amarlo. Ho scoperto la tenerezza e il sentimento attraverso gesti che non mi erano familiari. Mi ha insegnato a comunicare con lo sguardo, a perdermi e ritornare bambino mentre gli lanciavo una palla sulla spiaggia per farlo correre”.

Alessandra, invece, col tempo, e grazie a Joy, ha compreso che prendersi cura di una creatura che dipendeva completamente da lei, era sicuramente impegnativo ma in cambio ha avuto più di quanto potesse immaginare.

“Dopo la morte di mia madre – conclude Alessandra – avevo bisogno di una rivoluzione nella mia vita e non era servito a niente tagliarmi i capelli cortissimi, io che li avevo sempre portati lunghi. No, avevo bisogno di quel cane gioioso e testardo che mi metteva continuamente davanti i miei limiti e non per farmi sentire sconfitta ma per spronarmi a superarli. Senza Joy non ce l’avrei mai fatta. E per questo gli sarò grata per sempre”.


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