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Hanno tentato di riprendere in mano le loro vite facendo delle scelte di libertà. Ma in una terra segnata profondamente dalla cultura mafiosa, hanno pagato un prezzo altissimo. Sono tante le donne uccise dalla ‘ndrangheta, colpevoli di aver infranto le regole del silenzio o di aver scelto di essere altro da ciò che veniva imposto loro.
Cetta Cacciola, Tita Buccafusca, Rossella Casini, Lea Garofalo, Angela Costantino, Maria Chindamo, tante storie diverse accomunate dallo stesso desiderio di cambiamento. I loro volti continuano a raccontare e i loro sogni sono diventati una bandiera per altre giovani donne che hanno trovato nel loro esempio, la forza e il coraggio di ribellarsi e mettere in salvo i loro figli.

Maria Concetta Cacciola, morta il 20 agosto 2011

“O stai cu nnui o cu iddi”, le diceva sua madre, riferendosi ai carabinieri ai quali la figlia si era rivolta. Aveva 31 anni e tre figli di 16, 12 e 7 anni, Maria Concetta Cacciola, “Cetta”, la giovane donna di Rosarno, che il 20 agosto del 2011 avrebbe ingerito dell’acido muriatico o sarebbe stata costretta a farlo, per sottrarsi alle pressioni della sua famiglia che voleva ritrattasse le dichiarazioni rese spontaneamente ai magistrati della Dda, sui legami di ‘ndrangheta di cui era a conoscenza, prima di essere allontanata e portata in una località protetta.

Il padre, Michele Cacciola, con dei trascorsi criminali di tutto rispetto, era cognato del boss Gregorio Bellocco. E Cetta era cresciuta in quella famiglia di ‘ndrangheta con regole rigide e soffocanti. Per questo a tredici anni decise di accettare il corteggiamento di un ragazzo del suo paese, Salvatore Figliuzzi, che le appariva in quel momento come un’ancora di salvezza. Ma Salvatore, scegliendola, aveva soltanto pianificato il suo futuro criminale sancendo un’appartenenza mafiosa che ora gli spettava di diritto. Cetta capì di essere in trappola, di aver involontariamente rinsaldato quel sistema dal quale aveva voluto fuggire.

Ma quando suo marito finì in carcere perché fu condannato insieme al boss Gregorio Bellocco e quasi una ventina di affiliati al suo clan, Cetta cercò altre strade per poter esistere e Facebook, seppur virtualmente, le offrì l’opportunità della parola e la libertà di scegliere con chi comunicare. E tra i tanti contatti, uno in particolare, le riaccese la speranza del cambiamento.

Un uomo attirò la sua attenzione, la coinvolse, le parlò e nel contempo si dimostrò disponibile ad ascoltare la sua sofferenza.

S’innamorò Cetta e accolse quella storia a distanza e solo immaginata, come quel segno del cielo che aspettava da troppo tempo. Ed è con questa consapevolezza e con la voce tremante che quando si recò in caserma perché a suo figlio sedicenne avevano rubato il motorino, vide nel maresciallo dei carabinieri che aveva davanti, una possibilità di salvezza. Ma sua madre, dalla località protetta dove era stata portata, la convinse a ritornare usando i suoi figli come esca. Qualche giorno dopo Cetta fu trovata morta. Si sarebbe tolta la vita.

Santa (Tita) Buccafusca, morta il 18 aprile 2011

Una sposa di ‘ndrangheta, questa è stata Santa Buccafusca, per tutti Tita, moglie di Pantaleone Mancuso, boss di Limbadi, soprannominato “Luni Scarpuni”, morta suicida il 18 aprile del 2011, dopo aver ingerito come Cetta Cacciola, un grosso quantitativo di acido muriatico. Una morte sospetta la sua, sulla quale gli inquirenti hanno lungamente indagato nella speranza di trovare un nesso causale tra il tentativo disperato di Tita di uscire dalla famiglia Mancuso che la portò appena due mesi prima, era il 14 febbraio, ad entrare nella caserma dei carabinieri di Nicotera Marina con in braccio il figlioletto Salvatore per chiedere protezione, e quanto avvenne appena un mese dopo essere ritornata a casa da suo marito.

Fu l’omicidio di Vincenzo Barbieri, detto “u ragioniere”, noto narcotrafficante capace di trattare con i cartelli sudamericani per conto dei clan del vibonese, ucciso da un commando armato nel centro di San Calogero, a spaventare Tita. Comprese che lei e la sua famiglia erano in pericolo e che soprattutto dopo quell’omicidio altro sangue sarebbe stato versato.

Aveva paura ma voleva soprattutto cambiare vita. Le era fin troppo chiaro ormai, cosa significasse essere la moglie di Mancuso e quali erano le regole alle quali doveva rigorosamente attenersi. A poche ore dal delitto, con il suo bimbo in braccio si presentò dai carabinieri di Nicotera Marina per chiedere di intervenire: “Si ammazzano come i cani – disse loro – mettete posti di blocco dappertutto”.

Tita parlò con i magistrati e raccontò quanto sapeva ma prima di firmare i verbali, chiese di telefonare a suo marito. Pregò Pantaleone Mancuso di seguire la sua stessa strada, di cambiare vita e di farlo soprattutto per suo figlio. Lui la chiamò pazza e gli chiese di ritornare a casa. Ma fu la sorella di lei, chiamata subito dopo, a convincerla a ritornare da suo marito. Tita non firmò mai quei verbali, e qualche giorno dopo si sarebbe suicidata. Così dissero i suoi familiari.

Rossella Casini, scomparsa il 22 febbraio 1981

Rossella Casini, 25 anni, studentessa fiorentina, scomparve a Palmi il 22 febbraio del 1981. La ragazza era fidanzata con Francesco Frisina, un giovane studente universitario di Palmi, coinvolto nella faida in atto tra i Gallico e i Parrello-Condello.

Rossella, figlia unica, conobbe Francesco nel 1977, quando il ragazzo di Palmi, studente di Economia, andò ad abitare nella palazzina ottocentesca dove viveva la famiglia Casini, nel quartiere di Santa Croce.

I due ragazzi si fidanzarono e i genitori di lei più volte si recarono in Calabria ospiti della famiglia del giovane. Nessuno di loro inizialmente percepì il pericolo di quel sentimento, fino all’uccisione del padre di Francesco nelle campagne di Palmi il 4 luglio del ’79, e il ferimento del ragazzo alla testa, cinque mesi dopo, in un agguato.

Da quel momento iniziò un’altra storia. Rossella fece trasferire il suo fidanzato alla clinica neurochirurgia di Firenze e oltre alle amorevoli cure gli offrì la possibilità di diventare altro, di tagliare definitivamente con le sue origini e con la storia della sua famiglia coinvolta nella terribile faida tra i Gallico e i Parrello-Condello che stava insanguinando le strade di Palmi.

Francesco e la stessa Rossella affidarono le loro verità ai magistrati fiorentini che trasmisero gli atti alla procura di Palmi. Da quel momento la ragazza, considerata da tutti la forestiera, divenne anche una traditrice. Ma lei continuò ad inseguire il sentimento che la animava e che era più forte dei ragionevoli dubbi che ogni tanto l’assalivano.

Dopo tredici anni dalla scomparsa della ragazza, il pentito palermitano Vincenzo Lo Vecchio, rivelò che Rossella era stata violentata, assassinata e il suo corpo tagliato a pezzi e buttato in mare al largo della tonnara di Palmi, per aver convinto il suo fidanzato a diventare testimone di giustizia. Quattro le persone rinviate a giudizio per la sua morte. Il processo per il sequestro e l’omicidio della studentessa fiorentina iniziò il 25 marzo del 1997 e si concluse nove anni dopo con una sentenza di assoluzione.

Lea Garofalo, uccisa il 24 novembre 2009

A Lea Garofalo uccisero il padre quando lei aveva appena otto mesi e suo fratello Floriano, boss di Petilia Policastro, nel 2005.

Ad appena sedici anni Lea si innamorò di Carlo Cosco e l’anno dopo ebbe una figlia da lui, Denise. Si trasferirono subito dopo nel capoluogo lombardo dove insieme agli altri fratelli si occupava del traffico di droga e di affari poco puliti.

Lea si rese ben presto conto della vita che l’attendeva e soprattutto per la sua bambina, nel 2002, decise di dare una svolta lasciando il suo compagno e reagendo alle sue minacce e alle intimidazioni, denunciandolo alle forze dell’ordine e rivelando anche le faide interne esistenti tra la sua famiglia e quella dei Cosco.

Lea in seguito alla sua testimonianza venne ammessa al programma di protezione insieme a sua figlia ma nel 2006 venne estromessa perché le sue rivelazioni non furono più considerate particolarmente significative.

Solo grazie a un ricorso al Consiglio di Stato nel 2007, le fu riconosciuto lo status di collaboratrice di giustizia ma non di testimone. Lea aveva problemi economici e soprattutto si sentiva abbandonata da quello Stato a cui lei si era rivolta per uscire da quell’inferno. Due anni dopo decise di rinunciare alla tutela e qualche mese dopo, era il 24 novembre del 2009, fu uccisa dal suo ex compagno Carlo Cosco a Milano.

Angela Costantino, scomparsa il 16 marzo 1994

Angela Costantino, 25 anni, sposata con il boss Pietro Lo Giudice e madre di quattro figli in tenera età, scomparve da casa il 16 marzo del 1994 e di lei non si ebbero più notizie. Il fratello della giovane ne denunciò la scomparsa e iniziarono le sue ricerche.

Anche la famiglia del marito, che molti anni dopo risultò essere coinvolta nella sua morte, partecipò attivamente facendo fare anche degli appelli via radio nella speranza che Angela potesse ritornare a casa dai suoi figli. Una vera e propria messinscena per allontanare i sospetti.

L’auto della donna, una “Fiat Panda”, venne ritrovata qualche giorno dopo a Villa San Giovanni con all’interno delle ricette mediche comprovanti il fatto che Angela in quel momento soffrisse di crisi depressive e il sedile posizionato in modo tale che a guidare l’auto non avrebbe mai potuto essere stata la ragazza bensì una persona molto più alta.

Qualche giorno dopo inoltre, arrivò una telefonata anonima alle forze dell’ordine nella quale veniva affermato con certezza che la giovane donna era stata sequestrata ed uccisa.

Nonostante le evidenti anomalie, non c’erano, però, elementi tali da dare corpo, sul piano investigativo, a quelle rivelazioni e il fascicolo inerente la scomparsa della donna rimase per molti anni fermo senza produrre verità sostanziali.

La svolta arrivò 18 anni dopo, quando nel corso di un’operazione vennero arrestati, tra gli altri, Vincenzo Lo Giudice, considerato uno dei capi della cosca, il cognato Bruno Stilo e il nipote Fortunato Pennestrì, accusati di essere mandanti ed esecutori dell’omicidio di Angela Costantino, colpevole di aver avuto delle relazioni amorose mentre suo marito era detenuto in carcere.

Pare addirittura che la giovane fosse rimasta incinta e che avrebbe abortito in una clinica privata. La sua condanna a morte fu decisa dalla famiglia per salvare l’onore di Pietro e perché Angela era ormai considerata ingestibile e pericolosa. Della sua esecuzione aveva già parlato anni prima Maurizio Lo Giudice, fratello di Pietro, che aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Le sue rivelazioni furono poi consolidate da quelle di altri due pentiti, Paolo Iannò e Domenico Cera.

Il giudice Carlo Alberto Indellicati condannò a trent’anni di reclusione ciascuno, Bruno Stilo e Fortunato Pennestrì, ritenuti rispettivamente mandante ed esecutore materiale dell’omicidio di Angela Costantino. Il giovane con il quale Angela aveva avuto una relazione, scomparve qualche giorno dopo il suo sequestro e di lui non si ebbero più notizie.

Maria Chindamo, scomparsa il 5 maggio 2016

“Il sacrificio di Maria voglio che si trasformi in una possibilità di riscatto per la nostra martoriata terra”. Vincenzo Chindamo, nonostante il carico di dolore che si porta dentro da quel 5 maggio del 2016, giorno in cui sua sorella Maria scomparve davanti al cancello della sua azienda agricola, a Limbadi, cerca di dare forma e sostanza al suo bisogno di verità e giustizia, per lui e per tutta la sua famiglia ma soprattutto per i nipoti Vincenzino, Federica e Letizia, i figli che Maria avrebbe voluto veder crescere e che sono la testimonianza diretta di una vita vissuta nel rispetto dei valori e dei sentimenti.

Ma di lei non c’è più traccia e tocca a suo fratello tentare di togliere quella coltre pesante che avvolge la storia di una donna bella e combattiva, colpevole soltanto di aver scelto come vivere la propria vita.

Maria incontrò Ferdinando Puntoriero, il suo futuro marito, quando aveva appena 14 anni. Dopo gli studi universitari in Economia e Commercio portati avanti con tenacia anche dopo il matrimonio e la nascita di Vincenzino, prese l’abilitazione alla professione di commercialista e aprì uno studio a Rosarno.

La crisi coniugale che investì in seguito la coppia, portò al suicidio di Ferdinando, incapace di reggere la richiesta di libertà avanzata da sua moglie. Qualche pentito ha raccontato particolari agghiaccianti sulla morte di Maria (LEGGI) ma la verità sembra ancora lontana e la giustizia tarda ad arrivare.

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