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Il luogo dell'omicidio

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CROTONE – Il gup Romina Rizzo ha rinviato a giudizio, all’udienza del prossimo 28 maggio, davanti alla Corte d’assise di Catanzaro, Francesco Pezziniti, 78enne, e il nipote Giuseppe Cortese, 30enne, per l’omicidio di Stefano D’Arca, commesso davanti al centralissimo bar Moka l’8 marzo dello scorso anno. L’anziano, come è noto, si attribuisce l’esecuzione materiale del delitto, ma l’accusa resta quella di concorso in omicidio per entrambi, e per il giovane in qualità di istigatore, con i connessi reati in materia di armi, compresa quella di ricettazione (per Pezziniti anche di detenzione illegale di una seconda pistola e delle relative cartucce).

I fatti. Pare che il 54enne D’Arca, già noto alle forze dell’ordine (nel suo passato ci sono episodi di tentata estorsione, lesioni, violenza privata) avrebbe dato fastidio nel locale. La lite tra D’Arca e Cortese sarebbe degenerata alla chiusura perché il primo, cliente abituale che spesso pare non pagasse e offrisse anche consumazioni gratis ai propri amici, avrebbe molestato avventori e avrebbe danneggiato una zuccheriera, il bancone e una vetrina da cui aveva prelevato una bottiglia. Forse era ubriaco. Giuseppe chiama il padre Luciano che, con l’ausilio di alcuni dipendenti, separa il figlio e D’Arca, ma neanche lui riesce a riportare la calma. A quel punto il giovane chiama il nonno, che abita a due passi da lì ed è il titolare dell’hotel Concordia. Preleva una pistola in uno sgabuzzino e torna sul posto, D’Arca inveisce verbalmente. «Ti sei preso una pistola per spararmi?». Quindi D’Arca viene allontanato dal bar dal padre del ragazzo che, a quanto pare insieme al nonno, a quel punto affronta D’Arca che con atteggiamento di sfida dice al giovane che non avrà il coraggio di sparare. Il nonno sostiene di aver impugnato lui l’arma e di aver sparato. Sette i colpi partiti da quella maledetta calibro 7,65 con la matricola abrasa, cinque dei quali raggiunsero al petto D’Arca, che morirà in ospedale poco dopo. Il nonno chiama l’ambulanza del 118 e la polizia – «abbiamo sparato a qualcuno che ci ha aggrediti… ci siamo difesi» – che peraltro gli sequestra a casa un’altra pistola clandestina.

La vicenda fu ricostruita rapidamente dagli agenti della Squadra Mobile della Questura grazie anche alla visione delle immagini registrate dagli impianti di videosorveglianza. «Ce l’hai le palle per spararmi?» «Lui non ce l’ha ma ce le ho io». La scena assurda dura venti minuti ed è tutto filmato. E viene fuori che già venti minuti dopo la mezzanotte, D’Arca, avvicinandosi al bancone, fa cadere degli oggetti. Un dipendente indietreggia cercando di calmarlo. Quindi D’Arca si scaglia contro un distributore di palline colorate. Giuseppe Cortese fa una telefonata mentre D’Arca continua a colpire il bancone. Arriva Luciano Cortese, che cerca di calmare D’Arca che dopo un po’ riprende a inveire. Giuseppe Cortese allora esce dal bar e percorre il marciapiedi sotto i portici in direzione di piazza Pitagora, fino all’hotel Concordia, gestito dal nonno. Poco dopo fa lo stesso tragitto in direzione opposta. Con la mano sinistra regge un oggetto. E’ una pistola. Torna nel locale mentre la impugna. Sono le 0,42 quando rientra al bar.

Gli agenti mettono il ragazzo di fronte all’evidenza del possesso della pistola, e Cortese ammette e indica il luogo dove l’ha riposta dopo gli spari. Nello stesso frangente Pezziniti rappresenta ai poliziotti che è stato lui a sparare contro D’Arca nonostante fosse inquadrato il ragazzo con la pistola. Scatta la perquisizione all’hotel Concordia dove il ragazzo fa rinvenire una busta con dentro una pistola calibro 7,65 e 343 cartucce. Nella stanza da letto di Pezziniti, in una cassetta di sicurezza, viene poi trovato un revolver con sette cartucce.

Hanno annunciato la costituzione di parte civile, per i familiari della vittima, gli avvocati Emanuele Procopio, Jessica Tassone, Fabrizio Gallo. Cortese è difeso dagli avvocati Ilda Spadafora e Francesco Laratta, Pezziniti dall’avvocato Aldo Truncè.

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