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Il cavo tranciato tra i reperti sequestrati

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CROTONE – Settemila euro al mese fino a che non finirà il processo. La giustizia non bada a spese se ci sono “eroi” da processare. Dopo i circa 300mila euro necessari per recuperare il relitto, un fitto mensile di 7mila euro viene sborsato dallo Stato alla ditta Omi Sud per la custodia di ciò che resta dell’imbarcazione su cui nell’agosto 2020 si erano avventurati una ventina di migranti, quattro dei quali morti in seguito a un’esplosione sulle cui cause i periti del gip, ai quali si sono rifatti quelli del pm, non sono stati in grado di dire nulla, tanto deformato è ciò che resta della bagnarola.

C’è anche questo retroscena, che si materializza nella tensostruttura allestita al porto, dove fragilissime parti di scafo resteranno adagiate su una sella fino al termine del processo, nell’inchiesta contro i quattro “eroi”,  come erano stati ribattezzati dalle cronache, e cioè i militari della Sezione operativa navale delle Fiamme gialle di Crotone intervenuti per soccorrere una ventina di migranti sul veliero su cui si era appena verificata la deflagrazione e che ora si ritrovano indagati per la tragedia al largo di Praialonga.

Omicidio colposo plurimo. Perché quella drammatica domenica di agosto 2020, l’esplosione e il conseguente affondamento dell’imbarcazione “Heaven” determinarono la morte dei quattro migranti. Secondo il professor Antonio Scamardella e l’ammiraglio Salvatore Carannante, i consulenti del gip Romina Rizzo, la tragedia era evitabile. Questo sarebbe emerso da un incidente probatorio disposto, su richiesta del pm Pasquale Festa, per «accertare la natura, la causa, l’epoca e i mezzi che hanno determinato l’incendio dell’imbarcazione e il conseguente affondamento; il tipo di combustibile utilizzato nel rifornimento; l’idoneità dell’imbarcazione alla navigazione; la congruità dei dispositivi di sicurezza rispetto al trasferimento; l’esistenza di idonei approdi più vicini rispetto al punto di rinvenimento dell’imbarcazione, calcolandone i tempi di percorrenza; l’esistenza di specifiche norme cautelari in relazione al tipo di attività eseguita dagli indagati; individuazione di eventuali e specifiche sfere di responsabilità».

Un nuovo incidente probatorio, dunque, dopo che già una parentesi processuale era stata aperta per acquisire le testimonianze di alcuni migranti. La tragica vicenda finì all’attenzione delle cronache nazionali anche per il gesto eroico dei militari buttatisi in acqua per salvare vite. Sotto accusa ci sono anche i due finiti in ospedale dopo l’emergenza. Maurizio Giunta, appuntato scelto, che fu ricoverato insieme al suo collega finanziere Giovanni Antonio Frisella. Giunta è quello che, con una gamba rotta su una barca in fiamme, si prodigò per buttare quanta più gente possibile in acqua perché tanti avevano paura. In acqua si buttò anche Frisella, che con un piede fratturato afferrò un migrante che non sapeva nuotare. Ma si tuffò anche il maresciallo Andrea Novelli, che, a dispetto del grado, vedendo un collega in difficoltà lo salvò e salvò quante piu vite possibili in quel drammatico frangente.

Tutti indagati. Indagato perfino il loro comandante, il capitano Vincenzo Barbangelo, che non era sul posto e, fra l’altro, recependo le direttive della sua gerarchia, ordinò ai suoi uomini di intervenire per scortare l’imbarcazione. Li difendono gli avvocati Pasquale Carolei, Emiliano D’Alessandro e Filly Pollinzi che contestano quanto argomentato dai consulenti del gip e intendono sgombrare il campo dalla confusione tra evento di soccorso e di polizia giudiziaria. Fu intervento di polizia giudiziaria che a un certo punto divenne di soccorso per l’imprevedibilità dell’incendio, sostiene la difesa.

Ma perché la tragedia sarebbe stata evitabile, secondo l’accusa? Ai militari si contesta soprattutto l’imperizia nella «scelta di condurre l’imbarcazione a Crotone, con l’intenzione quindi di compiere una traversata di almeno 33 miglia e con una navigazione di non meno di 5 ore, con 22 persone a bordo e in condizioni meteo in peggioramento». Secondo i consulenti del gip quella scelta «certamente» non era la «più idonea per la sicurezza degli occupanti (migranti e finanzieri) e dell’imbarcazione stessa». Perché il più vicino porto di Catanzaro Lido è munito di «fondali sufficienti da consentire l’ingresso della Heaven» e dista «circa 5 miglia dal punto del ritrovamento dell’imbarcazione».

Trasportare i migranti appunto a Catanzaro sarebbe stata la scelta «senz’altro più adeguata e ragionevole da considerare al fine di garantire l’incolumità di tutti i passeggeri». Sempre secondo i periti, anziché rimorchiare i migranti fino a Crotone, date anche le condizioni meteo in peggioramento, i finanzieri avrebbero potuto, magari con l’ausilio di una motovedetta della Capitaneria di porto di Crotone, trasbordare i migranti al porto di Le Castella «che dista solo 4 miglia e quindi raggiungibile in pochi minuti».

Le obiezioni difensive sono dietro l’angolo. Il porto di Catanzaro Lido? Mai preso in considerazione come rifugio in nessuna operazione di soccorso in mare o di polizia giudiziaria, almeno nel triennio 2018-2020. Perché, tra l’altro, è un approdo «poco attrezzato e di problematica praticabilità», come risulta dall’ordinanza 10/2020 dell’Ufficio circondariale marittimo di Soverato, e perché la rotta verso Crotone sarebbe avvenuta col mare a favore e in una zona protetta della costa. Questa la tesi del capitano Pasquale Caiazza, uno dei consulenti della difesa dei quattro finanzieri “eroi”, secondo cui la scelta del porto di Catanzaro Lido era sconsigliabile perché poco frequentato sotto il profilo operativo e quindi «non pronto per la gestione delle numerose attività conseguenti allo sbarco di migranti». Tanto più che l’autorità marittima sconsigliava l’entrata in porto «per la presenza di corpi semisommersi negli spazi acquei portuali».

L’alternativa Crotone era «la migliore possibile e praticabile, senza obiezioni da parte di nessuno degli enti operanti, adottata coerentemente con la prassi costantemente seguita sia dalla Guardia di finanza che dalle Capitanerie di porto». Non c’era un pericolo serio e immediato per la galleggiabilità dell’imbarcazione e l’incendio e le esplosioni a bordo potrebbero essere dipesi da condotte imprudenti di migranti che hanno lasciato braci di sigarette vicino a elementi infiammabili, data la presenza di taniche a bordo.

Ma non si esclude nemmeno «un evento intenzionalmente provocato per interrompere la navigazione o occultare altra condotta». Vale a dire un sabotaggio. Un’ipotesi inquietante, quella che fa capolino. Secondo l’accusa, dunque, la tragedia era evitabile nonostante non sia stato possibile accertare le cause dell’innesco fatale. Data la notevole distanza percorsa durante la traversata dalla Turchia, le operazioni di travaso di gasolio sono state numerose e a bordo non c’erano certo diportisti attenti alle più basilari norme sulla sicurezza sulla navigazione. Pare che un travaso, ma di benzina, sia stato eseguito all’arrivo a Sellia Marina e non sarebbero da escludere fuoriuscite accidentali di carburante; inoltre, molti migranti fumavano e a bordo erano presenti numerosi accendini, tutte possibili fonti di innesco che avrebbero potuto accelerare lo scoppio della bombola di Gpl a poppa. Ma, dato lo stato del relitto, interamente bruciato e deformato, è impossibile stabilire una correlazione tra gli impianti a bordo e l’innesco, considerato anche che sono andate completamente distrutte batterie e utenze elettriche.

Se è un dato pacifico che le cause dell’incendio non sono individuabili, non si può escludere, anche secondo il perito balistico della difesa, Michele Ianieri, che l’evento nefasto sia riconducibile a un atto illecito. Anzi, «un concreto e reiterato tentativo di sabotaggio». Il primo atto potrebbe essere consistito nel tirare il cavo dell’acceleratore ponendolo in tensione con conseguente aumenti di giri fino al distacco dalla sede di innesto sul leveraggio. Il secondo sarebbe stato addirittura la tranciatura di uno dei cavi delle batterie. Durante un sopralluogo eseguito nel maggio 2021, è stato individuato, infatti, uno spezzone di cavo elettrico tranciato presumibilmente con una tronchesina. Un cavo tranciato della batteria, che per sua natura conduce elettricità, provoca scintille, osserva il perito; provoca anche l’immediato scoppio della batteria, e a bordo sono stati rinvenuti utensili con cui potrebbe essere stato tranciato il cavo, come la chiave pinza a pappagallo rilevata in prossimità proprio delle batterie. Ma il perito contesta anche le modalità di recupero del relitto, eseguito a un mese e mezzo dall’evento e affidato a un’impresa terza, piuttosto che alla polizia giudiziaria, e il fatto che siano stati sequestrati «pochissimi oggetti», tra cui la bombola Gpl esplosa, nonostante numerose immersioni.

Nel collegio peritale della difesa anche l’ingegnere Giuseppe Prosperi, che si è occupato peraltro di un’Ustica del mare come il caso Moby Prince: nel corso dell’incidente probatorio, sta provando a far comprendere alla controparte che la concitazione dei migranti era in seguito all’incendio. Nessuna concitazione durante i sette giorni di traversata. E al momento dell’inizio della navigazione da Sellia Marina a Crotone le condizioni dell’imbarcazione erano a buone, si sarebbero impiegate cinque ore fino al porto.

Un evento imprevedibile come l’incendio, il cui innesco è impossibile da chiarire, è al centro di un costosissimo procedimento contro quattro “eroi”. E se fosse stato un sabotaggio? Intanto, lo Stato continua a pagare un fitto di 7mila euro per custodire il corpo del reato.

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