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ISOLA CAPO RIZZUTO – Sono 68 le persone nei cui confronti la Dda di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta che un anno fa portò a 33 arresti per un giro di fatture false per oltre 20 milioni di euro e fece luce su una presunta organizzazione criminale di cui avrebbero fatto parte, oltre a esponenti della cosca Arena, anche imprenditori e commercialisti del Nord.

Associazione per delinquere, con l’aggravante di aver agevolato le attività della nota cosca ‘ndranghetistica del Crotonese, con attività di usura, ricettazione, riciclaggio, autoriciclaggio, trasferimento fraudolento di valori, favoreggiamento, nonché reati tributari e fallimentari le accuse ipotizzate. I professionisti contabili, in particolare, avrebbero ideato e messo in atto modelli seriali di evasione fiscale a beneficio delle società riconducibili al sodalizio criminale.

Imprenditori e commercialisti del Nord, secondo la ricostruzione della pm Claudia Moregola, andavano a lezione di false fatturazioni da Martino Tarasi, nipote del boss Nicola Arena, deceduto qualche anno fa. Il Nord a cui i soldi sporchi, i soldi facili, i soldi della mafia non fanno schifo. È un’intercettazione da manuale quella eseguita da finanzieri e carabinieri di Bergamo mentre, ignaro di essere captato, nel gennaio 2020, il nipote del patriarca del clan e presunto capo dell’organizzazione criminale spiegava quanto rendeva un giro vorticoso di fatturazioni per operazioni inesistenti.

Non serve trovarsi un’occupazione reale; del resto, stando a quanto afferma Tarasi in una sorta di confessione stragiudiziale, in quest’attività illecita era impegnato sistematicamente da almeno un paio d’anni, con «modalità standardizzate e professionali», è detto nelle carte dell’inchiesta.

«La cosa meglio è quando non ho lavorato… solo fatture, solo fatture, solo fatture dalla mattina alla sera… non le devi fare a nome tuo, mio, mai…avevo due, tre ragazzi con due, tre aziende e nemmeno un operaio… loro fatturavano a ‘sti clienti, i clienti gli facevano il bonifico, loro li toglievano e io glieli riportavo in contanti e mi tenevo il 10, il 15, il 12 per cento, l’Iva, dipende». Gli imputati, ai quali sarebbero riconducibili sette società cartiere, confidavano nell’assenza di controlli delle forze dell’ordine a fronte di ricavi ingenti. «Ogni anno le cambiavo ‘ste società e mai un controllo mi è arrivato… mai, mai, mai…aziende che hanno fatturato cinque milioni all’anno».

Ed ecco la sfilata di imprenditori del Nord che chiedono consulenza alla ‘ndrangheta e ci fanno “affari”. Tarasi sghignazzava e mimava pure la cadenza a cantilena tipica dei veneti, mentre illustrava ai suoi interlocutori come funzionava il sistema. «C’era un vecchietto di Verona che mi chiamava sempre… 75 anni, veronese proprio, ancora mi chiama ogni tanto… “quando vieni”? Quando vengo? Arrivavo subito e ci facevo la fattura… c’era una ragazzina, la ragioniera, che faceva il bonifico, glieli facevo togliere e glieli portavo…i primi periodi, quando non mi conoscevano, glieli portavo io prima e poi loro mi facevano il bonifico… poi questo mi ha conosciuto e mi ha visto…allora mi chiamava… “ehi, quando vuoi lavorare?”… mi mandava 30, 40, 50, 60, 80 dei suoi e poi glieli ridavo di nuovo e guadagnavi».

C’è anche una rivendicazione di “onestà”. «Però una cosa ti posso dire, non ho mai approfittato di nessuno, ai ragazzi che avevano fatto le aziende dicevo “quanto guadagno io guadagni tu”». Ma il veneto ci aveva preso gusto perché evidentemente l’attività era redditizia. «C’è ‘sto vecchietto qua che non è che una volta al mese, 100mila euro a settimana… tutti i giorni fatture voleva fare». Insomma, l’attività prevalente, anzi unica prima che Tarasi assumesse un ruolo ufficiale in un’azienda di trasporti, sarebbe stata quella di produrre fatture false per abbattere l’imponibile fiscale. Anzi, la scelta di fare l’imprenditore nasce dall’esigenza di fornire una giustificazione plausibile al suo tenore di vita elevato.

A organizzare frodi fiscali era così bravo, Tarasi, a suo dire, che perfino un commercialista del Nord gli chiedeva lumi. «Sai quanti soldi mi ha dato Giovanni, il commercialista… (Giovanni Tonarelli, di Casorate Primo, in provincia di Pavia, ndr)… lui le voleva fatte da me, non io a lui, perché gli serviva che glieli riportavo a nero». Un fiume in piena, Tarasi, che si vantava che non gli era mai “mancato niente” e aggiungeva di aver «speso in un anno 150mila euro» ad una casa che stava finendo e di essersi comprato «quattro appartamenti» a Steccato di Cutro. «Tutto in un anno».

Perché «tutte le settimane ero su, a Milano, Verona, Perugia, sai quanti clienti mi ero fatto? Una marea». Al Nord non fanno schifo i soldi sporchi ma non ci sono manco controlli, per esempio alle Poste, in occasione dei prelievi che la cricca esegue per monetizzare le Foi. «Andavo nella zona di Milano, nel circondario ci sono 15 uffici postali, in due ore facevo 15mila euro, mille, 3000, 2500… perché oramai ti conoscevano, ti vedevano tutte le mattine, e glieli davano… i suoi stessi soldi gli toglievo…non è che prendevo tutto ‘sto contante chissà da dove… quelli che arrivavano svuotavano il conto e subito glieli ridavo». Spettacolari, poi, le intercettazioni all’ufficio postale di Isola Capo Rizzuto dove il nipote del boss offriva caffè a tutti i dipendenti appena entrava.

Tra gli imputati il direttore, Salvatore Rocca, di San Mauro Marchesato, da poco in pensione, ma all’epoca dei fatti contestati dominus della filiale di Isola. Rocca, però, agli arresti non è mica finito per i caffè. È accusato di associazione a delinquere finalizzata a fatturazioni per operazioni inesistenti con l’aggravante mafiosa e di favoreggiamento poiché, in plurime circostanze, avrebbe consentito prelievi di somme cospicue senza segnalare operazioni sospette. Operazioni che avvenivano immediatamente dopo gli accrediti.

Ma il direttore sarebbe stato anche a disposizione delle esigenze del sodalizio criminoso per garantirne l’impunità per i reati fiscali e le intestazioni fittizie. I prelievi, però, erano anche negli uffici postali del circondario, come si ricava dalle carte dell’inchiesta. Nelle intercettazioni si parla delle Poste di Crotone, Le Castella, Botricello, Cropani Marina, non solo di Isola: nell’arco di una sola giornata sarebbero stati fatti numerosi prelievi, per un importo complessivo di un milione e 800mila euro. Il presunto capo delle frodi si vantava di adottare lo stesso metodo anche negli uffici postali del Milanese.

Ce n’è abbastanza perché Poste italiane faccia un po’ di controlli, e non solo a Isola e in Calabria. Soltanto con l’apporto dei colletti bianchi sarebbe stato possibile un business del genere. Del resto, sono imputati anche quattro commercialisti (Giuseppe Antonio Arabia, di Savelli, Marcello Genovese, di Peschiera Borromeo (Mi), Luca Litta, di Motta Visconti (Mi), Giovanni Tonarelli, di Casorate Primo (Pv). Tra le persone offese la Dda di Brescia indica il ministero dell’Economia.

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