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Intervista ad Antonio Nicaso, autore, insieme a Gratteri, di un nuovo libro sull’utilizzo delle criptovalute da parte della ‘ndrangheta

QUALCUNO sta facendo intensa attività di “mining”, dalle parti del Crotonese, della Locride, e della Piana di Gioia Tauro: qualcuno che, considerata la pervasività in quei territori di cosche tra le più potenti della ‘ndrangheta, potrebbe essere stato incaricato dai clan che hanno fiutato l’affare delle criptovalute. Si parla anche di questo nell’ultimo libro del neo procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, e dello storico delle mafie Antonio Nicaso. “Il grifone. Come la tecnologia sta cambiando il volto della ‘ndrangheta”, edito da Mondadori, destinato a diventare un best seller come gli altri saggi dei due autori che da tempo spiegano anche al grande pubblico come si stanno evolvendo le organizzazioni criminali, accenna anche all’esito di uno studio, coordinato dal professore Nicaso, che Fondazione Magna Grecia renderà noto a dicembre. La conferma viene dallo storico.

Professor Nicaso, nelle zone più depresse della Calabria si registra un’attività di estrazione di criptovalute che richiede l’uso di avanzati dispositivi tecnologici con dispendi energetici rilevanti: sullo sfondo è ipotizzabile la presenza della ‘ndrangheta. Forse è una delle notizie più sorprendenti che si rintracciano nel vostro ultimo libro.

«Nello studio che pubblicheremo, le grafiche sono impressionanti. I rilevamenti degli hotspot (Helium, simili a un normale router WiFi ma a più ampio raggio) nelle tre zone sono inequivocabili, in particolare nel Crotonese sono superiori a quelle di tante altre città italiane se si fa un rapporto tra territorio e popolazione. I clan del Crotonese su questo fronte sono stati lungimiranti. Nel libro, invece, riportiamo la rivelazione del collaboratore di giustizia veneto Nicola Toffanin che aveva avuto dal clan Arena di Isola Capo Rizzuto l’incarico di “minare”, ma poi non se ne è fatto nulla perché all’epoca rispetto al dispendio energetico non era conveniente per la ‘ndrangheta investire in criptovalute. Oggi l’attività di estrazione di criptovalute è sproporzionata rispetto alle dinamiche del territorio e alla realtà economica. Finora abbiamo avuto un’idea della ‘ndrangheta scarsamente competente e costretta a ricorrere a consulenze e competenze esterne per fare cose che non erano nelle corde dei mafiosi. Alcune recenti indagini dimostrano l’esatto contrario. Ci sono collaboratori di giustizia che dipingono scenari che fino a poco tempo fa sembravano impossibili, e parlano di criptovalute, piattaforme clandestine di trading e false garanzie bancarie, un mondo in evoluzione che sta a significare che la ‘ndrangheta è sempre più ibrida e capace di operare online e offline».

Non a caso avete scelto per la copertina del libro appena uscito l’immagine del grifone, un mostro mitologico dalla doppia natura, una creatura ibrida appunto, col corpo di leone e la testa d’aquila. Ma è una ferocia che pensa, perché appunto la testa è l’aquila…

«Il senso è quello di una mafia in bilico tra mondo reale e virtuale, che coniuga violenza e strategia. La violenza delle mafie è strategica, non contro il potere costituito, come quella dei briganti o dei terroristi. Ovviamente le mafie sono in grado di usare la violenza ma hanno capito che se la violenza non è legata a una strategia è controproducente».

Di fronte a una violenza così strategica sono necessarie continue modifiche normative?

«Gli scenari criminali che si aprono sono quelli della continuità e della velocità. Ma c’è una sentenza della Cassazione che stabilisce che le chat scambiate tramite applicazioni di messaggistica istantanea sono non documenti ma corrispondenze private, per cui se la polizia “buca” un server e trova milioni di messaggi di rilevanza penale non sono utilizzabili. Il conflitto eterno tra riservatezza e sicurezza si ripropone, ma se prevale la riservatezza il rischio è che sfugga un mondo criminale che va veloce e che il Legislatore deve invece cercare di comprendere. Bisogna essere sempre pronti a fare modifiche normative. I ritardi non solo dell’Italia. La Francia si rifiuta di utilizzare chat che dimostrano traffici di droga dalla Colombia attraverso buste diplomatiche. Per tutelare la riservatezza ci si rifiuta di stanare possibili responsabilità di apparati istituzionali».

Antonio Nicaso e Nicola Gratteri

Vi inserite nel dibattito su opportunità e rischi dell’Intelligenza Artificiale, un’arma a doppio taglio, condividendo l’allarme lanciato dai Servizi sulle prossime sfide dell’intelligence, a cominciare dall’”uso improprio” delle “tecnologie di frontiera”…

«L’”uso improprio” è l’espressione giusta, non bisogna avere paura della tecnologia, tutto dipende da come la utilizziamo, se l’algoritmo diventa “algoretico” e riusciamo a monitorare le derive pericolose, se riusciamo a combinare la tecnologia non l’etica, controlleremo gli eccessi».

Il mondo del trading clandestino e delle false garanzie bancarie viene messo a nudo, in particolare, da una recente inchiesta della Dda di Catanzaro che nei mesi scorsi ha portato all’operazione Glicine Acheronte, che ha inferto un duro colpo alla cosca stanziata nel quartiere Papanice di Crotone, dove un boss come Domenico Megna, che qualcuno aveva osato chiamare “pecoraro” venendo ucciso per l’affronto, guardava con interesse a questi mondi sofisticati riuscendo a muovere fiumi di denaro grazie ai suoi fiduciari e intermediari. Come è possibile, secondo lei, che un boss chiamato “pecoraro” possa avere interessi così rilevanti nel campo finanziario?

«Quello che mi ha sorpreso, e che dimostra la capacità organizzativa delle cosche del Crotonese, è che finora è sempre stato distinto il ruolo del boss da quello degli hacker che stavano dietro lo schermo, magari in Romania. Considero l’operazione Glicine Acheronte tra le più importanti fatte finora perché emerge non solo che la ‘ndrangheta non è scarsamente competente ma che gli hacker più potenti e ammanicati vengono fisicamente in Calabria, a lavorare a stretto contatto di gomito col boss. Mai avremmo immaginato che hacker dalla Germania venissero a Crotone per lavorare per mesi a stretto contatto con il clan del “pecoraro”. Viene fuori una nuova dimensione della ‘ndrangheta che trae vantaggi da Internet, dal dark web, dai computer, dalle criptovalute. Ma a questo va aggiunto la creazione di false garanzie bancarie e la possibilità di entrare nelle banche dati degli istituti finanziari, con contiguità ad alti livelli se nel corso delle indagini si trova un vademecum su come presentarsi ai direttori senza scambiarsi biglietti da visita, dove parcheggiare. In altri Paesi è più facile compiere certe operazioni, per questo c’è la ricerca di luoghi con legislazioni meno affliggenti. Parliamo di un sistema criminale integrato, onnivoro, insaziabile, perché i soldi delle mafie sono componente strutturale del capitalismo globale».

Se gli hacker tedeschi sono arrivati a Crotone, questo spiega l’intensa attività di mining delle criptovalute della ‘ndrangheta da queste parti?

«Potrebbe essere una chiave di lettura, perché queste operazioni richiedono computer molto sofisticati e in grado di risolvere calcoli complessi, con dispendi energetici enormi».

C’è un capitolo sul cyberbanging, con uno sguardo anche sul fenomeno dei neomelodici e dei trapper che simpatizzano con disvalori legati al mondo criminale totalizzando migliaia di visualizzazioni sui social, utilizzati dalle mafie anche per esteriorizzare potenza attraverso lo sfoggio delle loro ricchezze. Le mafie comunicano in rete, cercano proseliti anche sui social. Cosa si cela dietro questa nuova autonarrazione dei clan?

«I “cattivi maestri” sono stati i messicani con la loro estetica del potere, della ricchezza, dell’appartenenza. Vogliono apparire come quelli che ce l’hanno fatta e per combattere l’egemonia culturale nordamericana vendono la droga ai gringos e lo giustificano come rivalsa dei poveri contro i ricchi creando nuovi miti. Ma mentre in Italia i social media li usano gli affiliati o i simpatizzanti dei clan, in America Latina vengono gestiti dai gruppi criminali che hanno una loro strategia comunicativa. Ogni video postato è messaggio del gruppo e non dell’individuo. Ma se si pensa alla paranza dei bambini e ai millennium che monopolizzano i social media le rotte che si seguono da noi sono sempre quelle, specie su Tik Tok, mentre Facebook si usa si meno forse anche perché questa piattaforma è più monitorata dagli inquirenti, oltre oceano è stata infatti ribattezzata come “Fedbook” con riferimento ovviamente a Fbi, la polizia federale americana».

Tra le mafie italiane è la ‘ndrangheta quella più presente sul web, criptovalute a parte?

«La ‘ndrangheta è la più presente sul web, la camorra quella che sta più sui social. Ma in ambito globale la ‘ndrangheta è indietro rispetto al cartello messicano di Jalisco».

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