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L’ITALIA cialtrona ha dato in questi giorni il meglio di sé sul caso Sallusti. In prima linea politici con la coscienza sporca ed esponenti dell’associazionismo di categoria, direttori di grandi quotidiani e di telegiornali, pomposi opinionisti o modesti gregari della casta giornalistica che hanno aderito alla trovata, suggerita dalla Federazione della stampa, di lasciare, a mo’ di foglia di fico, un quadratino di spazio bianco accanto alla notizia della condanna definitiva a 14 mesi di detenzione inflitta dalla Cassazione al direttore del “Giornale” per aver pubblicato nel 2007 su “Libero” (di cui allora era direttore responsabile), la notizia, falsa e diffamatoria – mai smentita o rettificata da quel giornale, benché rivelatasi subito assolutamente infondata – che il giudice tutelare Giuseppe Cocilovo aveva “costretto” una ragazzina di 13 anni ad abortire con la complicità dei genitori e di un ginecologo. E da giorni Sallusti annunciava che sarebbe andato in carcere. Non ci andrà. Perché, a norma di legge, la pena è sospesa. Eppure i tanti paladini di una mal intesa libertà di stampa ne parlano come se fosse dietro le sbarre di una galera. Ed essi stessi dicono di sentirsi al suo posto, o al suo fianco, collocando le loro indignazioni sotto titoli aberranti come quello apparso persino su qualche giornale dal glorioso passato: “Siamo tutti Sallusti”.

Tutti chi? Se la lista è formata da coloro che contrabbandano il falso e la diffamazione per reati d’opinione, d’accordo. Ne hanno facoltà. Ma far apparire in questo caso la Corte di Cassazione come una riedizione della Santa Inquisizione è una mistificazione che non può essere usata  da chi vuol fare onestamente e correttamente informazione. Né può essere usata da chi, come proprio Sallusti ha diretto e dirige giornali che – per fare un solo esempio – hanno infangato con pervicacia la reputazione del direttore di un altro giornale, sgradito al padrino di Arcore, il giornalista Dino Boffo, direttore dell’Avvenire, andando a scavare nella pattumiera di una squallida informativa di spioni i dati sulla sua vita privata e sulle sue tendenze sessuali fino ad indurlo alle dimissioni. Né hanno diritto di usarla, quella mistificazione, uomini politici dello schieramento su cui Sallusti orienta la sua bussola, i quali non solo hanno omesso per anni in Parlamento di modernizzare la legge sulla stampa ma addirittura, quando ci hanno provato, hanno tentato di aggravare pesantemente le pene detentive e pecuniarie per i giornalisti, con norme che restringevano la libertà di stampa e di opinione fino a prendere le forme di un bavaglio.

Speriamo che a scoraggiare chi volesse persistere in questo tentativo serva la pubblica confessione in parlamento di Renato Farina, l’ex vicedirettore di “Libero”, radiato dall’Ordine dei giornalisti quando si scoprì che come “secondo lavoro” aveva quello di fornire informazioni riservate ai servizi segreti (ma fu subito fatto eleggere deputato da Berlusconi): la confessione di essere lui l’autore dell’articolo – firmato con lo pseudonimo Dreyfous per via di quel vizietto che, in “Così parlò Bellavista”, Luciano De Crescenzo avrebbe certamente battezzato come “Renato ‘o spione” – in cui si arrivava a chiedere la pena di morte per quel magistrato insieme con i genitori della ragazzina e il ginecologo (“quattro adulti contro due bambini”, scriveva).

E speriamo che ad illuminare quei difensori della libertà di diffamazione serva anche venire a sapere che Sallusti, per accreditarsi come martire, ha continuato a gettare luci sinistre sul giudice Cocilovo, accusandolo di essere disponibile a lasciarlo libero «in cambio di un pugno di euro, prassi squallida e umiliante più per lui, custode di giustizia, che per me», quando questi aveva detto fin dall’inizio che il risarcimento che gli fosse stato riconosciuto era destinato all’organizzazione umanitaria “Save the children”.

Una delle prime cose che si insegnano nelle buone scuole di giornalismo è ricordarsi del motto, ispirato alla Bibbia, “la penna (in origine: la parola) uccide più che la spada” per educare gli allievi al rispetto della verità e al rispetto delle persone. Che possono essere distrutte moralmente e fisicamente da una notizia falsa o ingiustamente infamante. Perciò nessuno si scandalizzi se la società richiede severità e rigore, anche giudiziario, nei confronti di chi si macchia del reato di diffamazione attraverso la pubblicazione di notizie false senza che sia seguita dalla tempestiva rettifica allorché quelle notizie, magari pubblicate solo per leggerezza, per errore e in buona fede, si rivelino infondate o inesatte. 

La si smetta, perciò, di contrabbandare per libertà di stampa o per libertà di opinione le mascalzonate. Non ci è bastato in questi giorni trovarci di fronte a un autoritratto della Polverini nei panni della Giovanna d’Arco di Trastevere? Ora vogliono rifilarci anche un Giordano Bruno della Padania?

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