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Abbiamo visto, letto, ascoltato, commentato, la 73ª edizione del Festival della Musica Italiana, Sanremo per gli amici.

ANCHE per quest’anno, in attesa del gran finale, mentre scrivo mancano quattro ore all’adesso andate via, il vincitore è… abbiamo bagnato i piedi nel fiume carsico della maldicenza musicale, la laica redenzione dei nostri cattivi pensieri nel nome del trash in note e suoni, l’epifania di noi prescelti nel decretare chi, cosa perché e per come.

Insomma abbiamo visto, letto, ascoltato, commentato, la 73ª edizione del Festival della Musica Italiana, Sanremo per gli amici. Settantatré anni di un divano da salotto buono a cui ogni febbraio viene tolta la plastica e messo lì, come chiesa al centro del paese, a disposizione di tutti, anche di quelli che «signora mia io non lo guardo mica eh, io solo film uzbeki, sottotitolati in cambogiano».

Un mobile antico, un atavico stilema, che vive di nuova linfa grazie ai cellulari, smartphone per voi giovani, ai degenerati e denigrati social, sì grazie a noi, le legioni di imbecilli cui internet ha dato la parola (che poi il poro Eco ben altro avrebbe detto, ma questa vita è una catena fatta di aforismi quindi eccallà, il danno è fatto). Sanremo social è un bagno di sangue, il fight club delle trasmissioni tv, un gabbie aperte e animali feroci liberi in città.

Qualunque cosa si muova sullo schermo viene impallinata in un tweet. Si guarda solo per dire quanto tutto faccia schifo. Canzoni, sketch, mise, ospiti. Una Quaresima laica nazionalpopolare. Un collettivo rito di espiazione, da cui uscire rinnovati. Cinque serate di ascolti interstellari, Amadeus che al quarto anno da Megadirettore Galattico ha iniziato a osare, oltre ai lustrini di lungo corso, giacche colorate ricchi premi e cotillons. Le polemiche d’uopo, non da oggi, partiamo  dal suicidio di Tenco, il pancione della Bertè, la zinnetta al vento di Patsy Kensit, Madonna che scambia Raimondo Vianello per Pippo Baudo ed esclama «You’ve changed», le incursioni di cavallo pazzo, e troppe altre ce ne sarebbero, fino ad arrivare all’attacco isterico del giovane BlanchitoBebe, Riccardo Fabbriconi aka Blanco che prende a calci le rose rosse, che mi hanno fatto male eppure le ho gradite, all’iconica immagine di Morandi che da bravo padre di  famiglia tv scopa in mano ripulisce il palco.

Le zinnette femministe di Chiara Ferragni che fa Chiara Ferragni  – l’amu ditta tutti –  ma che ha portato sul palco Antonella Veltri e le ragazze di D.I.Re e non è mica un piccolo particolare, la “Belva” Fagnani che sul palco diventa quasi micetta ma piazza un colpo probabilmente a vuoto sul carcere minorile e una stilettata con profondo scollo a Gratteri, Paola Enogu che spinge l’acceleratore sull’Italietta vera, razzista e borghese, il monologo di Chiara Francini sulla maternità mancata poteva essere e non è stato (come ha scritto meglio di me la mia amica Angela Potente).

La luce riflettente di Drusilla Foer, la diva, la meraviglia, la donna che lo scorso anno fece fare un passo indietro al duca conte Amedeo Umberto Rita Sebastiani con il suo “senta coso”. Da la valletta, ops co-conduttrice, a ospite che la più amata di tutte sia un uomo la dice lunga sullo stato dell’arte, con buona pace del mansplaining e delle quote rosa. Drusilla osa usando il congiuntivo e riportando in voga la consecutio temporum, regalandoci la sua unicità e con Pegah Moshir Pour, consulente e attivista di diritti umani italiana di origini iraniane («nata tra i racconti del Libro dei Re e cresciuta tra i versi della Divina Commedia») porta a Sanremo i diritti negati in Iran.

I diritti quelli veri, quelli delle libertà negate. Perché saranno anche canzonette quelle del Festival della Canzone italiana ma c’è un mondo che ci gira intorno come dimostra la breve irruzione della guerra tra un siparietto, un ospite e una esibizione d’artista. C’è il coniuge d’oro, di lucente biancore, il Lucia dei Ferragnez, quel Fedez  che mette in imbarazzo tutti ma insomma – slinguazzata con Rosa Chemical inclusa – uno scotto ai follower va anche pagato. Giovanna che non molla di un passo il suo Ama, ora anche lui influencer dai numeri scintillanti che fa dirette col telefono in tasca. 

Il festival che rende tributo a se stesso chiamando sul palco tre giovani anziani che avendo corde vocali di ferro non mollano di un passo, il trio da villa Arzilla in uscita libera fatto da Morandi (sempre lui, intrattiene, spazza, canta) Albano e Massimo Ranieri e sì al “Quando si fa sera, quando tra i capelli, un po’ d’argento li colora” sono partite le ola, che qui abbiamo una certa età e un certo gusto decisamente nazionalpop per la musica. Gino Paoli, che barcolla, straparla ma canta e questa stanza non ha più pareti. I Depeche e non ho commenti altri alla perfezione.

Ah sì, poi, ci sono anche le canzoni in gara. 28 in tutto. Perché Sanremo è Sanremo e alla fine si deve anche gareggiare, o giù di lì. Che per me cantare è Giorgia che al terzo ascolto ti scoppia in testa. Colapesce e Di Martino perché ho voglia di niente. Paola e Chiara che gli anni ‘90 ce li ho marchiati a fuoco nei miei over anta. Tananai fantasia e dolcezza. Perché Sanremo è Sanremo e alla fine si deve anche cantare, o giù di lì. Comunque sì, mentre il mondo cade a pezzi, io mi guardo il Festivàl.

Alle 2.41 della notte del mattino, Marco Mengoni ha vinto il festival e noi possiamo andare in pace.

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