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Il carcere di Melfi

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LE VICENDE che stanno interessando il carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno un procedente già approdato in magistratura. Riguarda un detenuto calabrese ristretto nel carcere di Melfi il quale, in relazione alle rivolte legate alla restrizioni anticovid, ha fatto causa rivolgendosi alla magistratura.

In quel caso la magistratura ha evidenziato come quella andata in scena nel carcere di massima sicurezza di Melfi è stata una repressione illegale, che si è tradotta nella detenzione «in condizioni inumane e degradanti» di persone che con quelle rivolte non c’entravano nulla. Anche perché i responsabili erano stati subito trasferiti altrove.

Il giudice Michele Tiziana Petrocelli, del Tribunale di Sorveglianza di Potenza, ha accolto, lo scorso marzo, il ricorso presentato dal detenuto calabrese, Rosario Calderazzo di Palmi, per il risarcimento del danno sofferto per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Risarcimento riconosciuto nella riduzione della pena da scontare di «un giorno per ogni 10 durante il quale ha subito il pregiudizio» per un totale di 18 giorni complessivi.

Il difensore di Calderazzo, l’avvocato Antonio Silvestro, aveva evidenziato un aggravamento delle condizioni di vita all’interno dell’istituto da marzo dell’anno scorso in avanti. Dopo le rivolte esplose nelle carceri di mezza Italia per il divieto di ricevere le visite dei familiari. In particolare il dimezzamento da 8 a 4 delle ore in cui i detenuti, ogni giorno, possono restare all’esterno delle celle. Con la «socialità (…) è divenuta alternativa al passeggio con conseguente sua sostanziale elisione dovendo il detenuto rinunciare ad ore di passeggio per poterne fruire».

Il magistrato di Sorveglianza ha anche esaminato i provvedimenti della direzione del carcere di Melfi e il suo giudizio è stato di vera e propria bocciatura.

In primo luogo «i detenuti ristretti in Melfi i quali hanno partecipato attivamente alla rivolta sono stati colpiti da provvedimenti di trasferimento in altri Istituti adottati nella imminenza dei fatti e, quindi, in sostanza, la riduzione dell’orario viene ad operare indistintamente a danno dei ristretti rimasti che invece si sono dissociati dalla rivolta non prendendovi parte».

Mentre la seconda evidenzia che non si è trattato «di una limitazione dell’orario la cui durata è stata circoscritta ad un breve periodo, a ridosso dei gravi fatti avvenuti il 09 marzo 2020, desumendosi dagli atti che la stessa sia ancora vigente alla data della relazione dell’Istituto (13 novembre 2020)».

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