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PADRE e figlio che a Terracina licenziano, bastonano e come fosse un avanzo da discarica gettano in un canale quel giovane indiano schiavo nelle loro terre, colpevole d’aver chiesto una mascherina e un po’ di tutele, non sono migliori di quel padre e quel figlio della Georgia che hanno ucciso a fucilate Ahmaud Arbery, colpevole di essere nero. Sono peggiori. E vili, orribili, jeans e polo, si eclissano griffati a messa. Mangiano Cristo, e poi lasagne e fave e pecorino, mescolando tra i denti sputo e filamenti di albicocche o ravanelli raccolti anche dai piccoli indiani al loro servizio, trattati come gli afroamericani di Radici. Più brutti e sporchi, perciò, di quei due della Georgia. Non hanno, questi altri due, italiani, la patente di folli suprematisti bianchi a difesa della razza. Sono, invece, la brava gente che i nuovi despoti da Parlamento e i conigli delle curve social sbraitano di dover proteggere dalle invasioni barbariche. I due alienati americani lo ammettono di odiare i neri, e che vorrebbero vederli tutti quanti morti. I due imprenditori nostri connazionali no, sostengono piuttosto di fare del bene. Salvo però riservare agli immigrati (e agli italiani) che lavorano per loro gli stessi diritti di una lucertola catturata dai ragazzini in epoche incoscienti di gambe penzoloni dai muretti di campagna, quando non c’erano gli smartphone.

Tirava una brutta aria al tempo dell’approvazione in Parlamento dello Statuto dei Lavoratori, il 20 maggio del 1970: il disastro della guerra in Vietnam che straripa in Cambogia, la polizia negli States che spara sui manifestanti pacifisti, che uccide guarda un po’ spesso ragazzi di colore, “negri”, come titolavano i giornali quando non era ancora stata abolita l’infamia nel denominarli tali, il sangue innocente in Palestina con le rappresaglie punitive israeliane, l’Italia sconvolta dagli scioperi e dal terrorismo che si avvia a riempire le strade di sangue all’indomani della “perdita dell’innocenza” con l’attentato di Piazza Fontana, a Milano. Tira una bruttissima aria adesso, tra il New York Times “costretto” dai morti per Covid a una prima pagina da Antologia di Spoon River di mille nomi che segnano il prossimo passaggio all’inquietante soglia dei centomila, alla nuova guerra fredda Usa-Cina, al dissesto economico e politico italiano post crisi, dove a cinquant’anni dalla conquista dello Statuto molti di quei rivoluzionari diritti si sono persi per strada, e quando si sono, anzi, fatti passi da gigante indietro.

Il punto è che pochi hanno capito che se a perderli, quei diritti, sono anche soltanto una donna o un solo uomo, li avremo persi tutti. E senza differenze, di alcun genere. Il sangue che cola dalle ferite del giovane indiano a servizio dei padroni di Terracina è il sangue di tutti. In un leggendario monologo del capolavoro Il Mercante di Venezia, William Shakespeare fa chiedere all’antagonista Shilock se non ha forse occhi un ebreo, se non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni, se non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano, se infine il sangue versato da un suo braccio non sarebbe identico. La risposta è sì. Quel sangue, è lo stesso. Le ferite dell’anima, sono le stesse.

Quel giovane da molti anni in Italia e con tutti i crismi di legge, non ha meno diritti di noi. Dalle sue ferite sulla testa fuoriesce sangue tale e quale al nostro. Anche Karim, il bambino incastrato in un cassonetto di raccolta dei vestiti della Caritas a Boltiere, nella bassa Bergamasca, morto cercando di qualcosa di meglio da indossare per sé e per i suoi cinque fratelli, aveva sangue rosso identico a quello dei figli nostri. La madre italiana, il padre della Costa d’Avorio, entrambi senza un lavoro. Certo, come tanti. Ma forse all’ultimo posto tra gli ultimi. Aveva dieci anni Karim, pieni diritti a viverne altri cento, pieni diritti alla felicità. E nonostante la guerra che combatteva lo era, felice, specie quando riusciva ad andare a scuola, dove lo ricordano per quei suoi bigliettini che distribuiva ai compagni su cui a tutti scriveva “ti voglio bene”. Ecco, sua madre non piange, adesso che Karim è morto, lacrime diverse dalle nostre. Quel liquido salato ha gli stessi oli, anticorpi ed enzimi. Il dolore che sta dentro per un mondo indifferente che ti schiaccia è lo stesso di ciascun essere innocente davanti a un torto. Si pensi al torto di morire per povertà, come è toccato a suo figlio.

Scrive Jean Paul Sartre che spesso, tuttavia, l’enfer sont les autres, l’inferno sono gli altri. Così accanto ai racconti sventurati di famiglie come queste, tocca leggerne in merito all’orda incurante e cialtrona di ricchi che chiede il contributo statale di 600 euro. Il conto più povero dove sono stati accreditati ne aveva sopra trentamila, quello più danaroso seicentomila: imprenditori, commercianti, costruttori, altra varia umanità. Il bancario che li ha smascherati in tv, a Piazza Pulita, ha detto una cosa sacrosanta: è legale, certo, ma è un’operazione che sta in quello spazio tra il diritto di averli quei soldi e il dovere di non chiederli. Quei seicento euro non servivano a questi signori, eppure li hanno chiesti. Forse non sanno nemmeno perché, forse lo sanno, forse lo sappiamo: lo sterco del denaro che mai basta. E poi vuoi mettere l’infido diletto nel dichiararsi in gamba e intelligenti infinocchiando lo Stato e tutti noi? Questo è il terriccio umido e putrido dove crescono e pascolano le mafie. Giovanni Falcone stesso lo ricordava: per esserlo, mafiosi, non occorre averne il patentino. La mafia non è marziana, anzi, ci rassomiglia. Significa che quel male è un sistema, un modo di pensare, un atteggiamento, e vive perciò e sguazza dentro a questo pantano sociale.

Le mazzate in testa di Terracina, lo sfruttamento, i caporali feroci, e tutto quel mondo che potrebbe rimpiazzare alla perfezione i personaggi di Maus, il tragico romanzo a fumetti sull’Olocausto di Art Spiegelman (vinse il Pulitzer nel 1992), ha nelle viscere il puntello delle mafie. Ecco perché queste persone dall’alba al tramonto si spaccano la schiena per 4 euro all’ora o anche meno, pagano da soli i propri contributi, firmano contratti fasulli con gente che si fa ancora chiamare “padrone”. Ecco, anche, perché muoiono. Paola Clemente, la ricordiamo tra tutte le vittime del bisogno, crepò di fatica a 49 anni sotto al sole nelle campagne di Andria, in Puglia, il 15 luglio del 2015.

Ma non di soli braccianti è zeppo il popolo degli schiavi di questo secolo. Esistono migliaia di fantasmi in Italia al cui confronto i cartoneros che raccolgono nelle notti di Buenos Aires carta e cartoni sono dei privilegiati in quanto a diritti, e con tanto di affidabile organizzazione sindacale alle spalle. In capo a questa ghost list, posizioneremmo un esercito di segretarie senza diritto di replica, con la testa schiacciata da lucenti scarpini di avvocati e professionisti i quali al posto dell’anima hanno bracieri spenti. E, in successione sparsa, portatori di volantini (in molti casi sotto il selvaggio controllo di Gps), commessi, baristi, camerieri, banconisti, manovali, operai e lavoratori di ogni genere e distretto. Sfruttamento, maltrattamenti, angherie psicologiche, orari impossibili, salari inammissibili, non vengono denunciati. La posta in gioco è quella elemosina mensile, o settimanale, spesso rigorosamente in nero e, se andrà bene, assai differente dalla cifra redatta in busta paga. Sono i martiri dei diritti mancati. Martiri. Martiri come il povero, giovane indiano bastonato e gettato come fosse porcellana da cesso in quel canale.

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