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Il tribunale di Vibo Valentia

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VIBO VALENTIA – «L’analisi del compendio probatorio non ha consentito di provare la persistente operatività della cosca Mancuso nel territorio vibonese nel decennio compreso tra il 2003 e il 2013».

Siamo a pagina 37 delle motivazioni – quelle più attese – del processo “Black Money” che il 17 febbraio di quest’anno è andato a sentenza (LEGGI LA NOTIZIA) pur non senza qualche risvolto sorprendente visto che è crollato il castello accusatorio relativo al reato associativo.

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Il Tribunale collegiale presieduto dal giudice Vincenza Papagno (a latere Giovanna Taricco e Pia Sordetti) ha, infatti, ritenuto che l’istruttoria dibattimentale non ha fatto emergere quegli aspetti sui quali la pubblica accusa, nella persona del pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia, Marisa Manzini, aveva reiteratamente posto l’accento. Accolte – sotto questo aspetto – dunque le doglianze dei legali di fiducia delle 9 persone alle quali veniva contestato il vincolo mafioso nel decennio successivo all’operazione “Dinasty del 2003, tutte considerate esponenti di primissimo piano del casato di Limbadi. Andando a sviscerare le motivazioni del verdetto, in tutto 450 pagine, i giudici, sul punto, rilevano innanzitutto che molti degli imputati (Antonio, Pantaleone cl ’47 – defunto – e Pantaleone cl 8/’61, alias “Scarpuni”) sono stati reclusi in carcere dal 2003 al 2010 tant’è che l’attività investigativa, come riferito dal colonnello del Ros, Giovanni Sozzo, è partita proprio da quest’ultimo anno.

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CHE ANCHE I MANCUSO PAGARONO UNA TANGENTE

 

Pertanto, scrive il Collegio, «in relazione agli anni pregressi non si ha evidenza in atti di colloqui intrattenuti in carcere con soggetti rimasti liberi, ai quali gli odierni imputati possano aver affidato compiti o impartito direttive per la sopravvivenza della cosca; anzi si è visto, ad esempio, come Luigi Mancuso, nonostante la lunga detenzione, risulti del tutto distaccato e disinteressato alle faccende che riguardano Pantaleone “Scarpuni”. I giudici rilevano ancora come l’oggetto del processo non sia «la caratura criminale dei singoli imputati, certamente sussistente nel caso specifico – quanto piuttosto l’esistenza di un gruppo unitario di cui gli stessi facciano parte, dal quale provengano le decisioni e le direttive in merito agli scopi da perseguire e alle modalità con cui farlo, dal quale trarre le risorse per attuare il programma comune al quale siano riconducibili le attività dei singoli». In pratica, la cosiddetta «affectio societatis” richiede, pur prescindendo da personali simpatie o antipatie tra gli associati e dalle opinioni che si possano nutrire rispetto ad alcuni di questi, necessariamente una obiettiva convergenza di intenti, che evidentemente in questo caso non sussiste o, comunque, non può ritenersi provata sulla base di questi elementi».

La pubblica accusa aveva chiesto condanne per 220 anni di carcere (LEGGI LA NOTIZIA), il verdetto di primo grado ne ha inflitti 47, mandando assolti dal vincolo mafioso i vari Giovanni Mancuso, Pantaleone Mancuso cl ’61, Giuseppe Mancuso, Antonio Mancuso, Agostino Papaianni ed altri.

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