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Pantaleone Mancuso “L’ingegnere”

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Emergono sempre più dettagli delle dinamiche interne al clan Mancuso alla luce delle rivelazioni del pentito Emanuele, figlio di Pantaleone “L’ingegnere”

VIBO VALENTIA – È proseguito al processo “Rinascita Scott” il controesame del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso che ha risposto alle domande degli avvocati Michelangelo Miceli, Leopoldo Marchese, Giuseppe Di Renzo, Guido Contestabile, Daniela Garisto, Franco Muzzopappa, Alessandro Diddi ed altri.

Molto lungo l’esame dell’avvocato Guido Contestabile, uno dei legali, tra l’altro, del collega Giancarlo Pittelli.

A domanda specifica se all’avvio della collaborazione il pentito avesse contrapposizioni con qualcuno della famiglia ristretta, il teste ha riferito che c’erano dei «rapporti tesi» precisando che «comunque non è questa la sede per parlarne», mentre con riferimento alla sua cerchia allargata ha fatto riferimento alla vicenda di Castagna.

In buona sostanza ha parlato dell’esistenza, a livello familiare, di «situazioni gravi fra componenti della mia famiglia con la creazione di due gruppi al suo interno che si stavano ammazzando tra di loro e che facevano riferimento da un lato Giovanni Rizzo con Roberto e Salvatore Cuturello, Nicola Drommi, e dall’altro a mio padre e di “Scarpuni”, mio fratello, ma non a me. Ad appoggiare i primi c’erano gli “ziani”, quindi Antonio e Cosmo Mancuso,

Luni Vetrinetta e Giovanni, il ramo degli ’Mbrogghja e dei Cuturello. C’era insomma una spaccatura nel clan prima dell’uscita dal carcere, nel 2012, di Luigi Mancuso che era la mente, contrariamente a Peppe che era il braccio. Non so se personalmente siano mai stati contrapposti tra loro, tuttavia i rispettivi gruppi lo erano».

Parlando ancora dei rapporti in seno alla famiglia, Emanuele Mancuso ha raccontato che c’è stato un tempo in cui suo padre «non si parlava con Luigi, ma dopo la rimessione in libertà di quest’ultimo le cose sono cambiate; dialogo che aveva invece con lo zio Antonio, tanto che in una occasione, per uno sgarbo fatto a mia madre ad opera di suo figlio, lui lo picchiò proprio di fronte a lei».

E su Pantaleone “Scarpuni”, il collaboratore ha riferito che era «inviso dal ramo ’Mbrogghjia» e che poi si era avvicinato a «mio padre, lasciando Cosmo, quindi il fratello di Luigi del quale era il figlioccio», precisando di «non sapere il motivo specifico».

Un «tipo alternativo», si è definito Emanuele Mancuso, perché non seguiva «gli indottrinamenti impartiti dalla famiglia» tant’è che effettuava anche furti e rapine andando contro il favore dei genitori: «Loro dicevano che fare quelle cose fosse una vergogna perché un Mancuso non doveva abbassarsi a tanto, ma io sono sempre stato un soggetto alternativo, specialmente quando ero minorenne e in parte da maggiorenne. Luigi poi mi disse “certe cose non le fare qui” anche perché molti negozi della zona sono loro».

Luigi del quale «ero innamorato», racconta ancora Mancuso, salvo poi raffreddare con lui i rapporti come nel caso della bomba a Castagna («soggetto che ritenevo essere un infame») in quanto «lui mi impose di non andare avanti nonostante io avessi dato la mia parola ai Soriano, e per me la mia parola vale tutto. Ma dovetti fermarmi».

Successivamente Mancuso ha affermato di aver «effettuato diverse bonifiche nella casa di Pasquale Gallone in quanto spesso piene di cimici che provvedevo ad individuare», e aggiunto di non aver allo stato un account attivo di Facebook «perché non posso farlo», mentre quello precedente «è stato sequestrato dalla Procura», ricordando che «il giorno che sono uscito di carcere inspiegabilmente ricevuto richieste di amicizia da mia madre e messaggi in cui è stata esternata preoccupazione per la situazione di mia figlia».

Quindi, da Contestabile le “domande spiacevoli” sull’uso di cocaina da parte del pentito la cui quantità «era variabile a seconda dei giorni», mentre la marijuana è «contraria al mio corpo perché mi si abbassa la pressione»; e dopo aver risposto stizzito di «non aver mai sostenuto alcuna visita psichiatrica», il teste ha rivelato che il padre lo appellava “Surici” perché «dove passavo io facevo danni, e in effetti uno è stato quello di collaborare», o “Rosaria”, come la zia «che era solita parlare molto ma non vuol dire che rivelavo all’esterno i segreti della famiglia».

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