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La Cassazione rigetta il ricorso di Rosario Pugliese detto Cassarola, ritenuto ai vertici della ‘ndrangheta vibonese che resta al carcere duro

VIBO VALENTIA – Rosario Pugliese, alias “Cassarola”, 58 anni, considerato esponente di spicco dell’omonima famiglia di ’ndrangheta operante sul capoluogo, resta confinato in regime di carcere duro. La Cassazione ha infatti rigettato il ricorso presentato dalla difesa dell’imputato (avv. Alessandro Diddi) condannato in primo grado a 28 anni di reclusione nel processo “Rinascita-Scott” (con rito ordinario) per associazione mafiosa ed altro.

Il “41 bis” era stato emesso il 23 marzo 2023 dal  Tribunale di sorveglianza di Roma che aveva respinto il reclamo proposto da Pugliese (che il 19 dicembre del 2019 si era sottratto al blitz della Dda è stato scovato in un appartamento di Bivona, frazione di Vibo, dotato di tutti i comfort.contro il decreto del Ministro della Giustizia del 4 aprile 2022 e basato sul presupposto del suo inserimento ai massimi livelli di responsabilità nella cosca Lo Bianco-Barba, operativa nel territorio di Vibo Valentia. L’udienza davanti ai giudici di legittimità si è svolta il 29 novembre, quindi 9 giorni dopo il verdetto del maxi processo ma le motivazioni sono state depositate solo adesso.

Per la Cassazione  il pronunciamento del Tribunale di sorveglianza «ha tenuto conto dell’ordinanza cautelare in virtù della quale il ricorrente è attualmente detenuto, ed ha ricavato da questa la permanente attività della cosca di appartenenza, anche perché egli è accusato di essere il promotore di un’autonoma ‘ndrina collegata con la cosca Lo Bianco-Barba, sicuramente ancora operante nel territorio di Vibo Valentia, ed il suo ruolo di capo, logicamente deducendo dalla sua capacità di rimanere latitante per circa un anno l’esistenza di appoggi, contatti e protezioni ampi e potenti, abitualmente posseduti dai soggetti ai vertici di un’associazione criminale».

Pertanto, la «pericolosità del ricorrente, il ruolo elevato ricoperto nell’ambito del sodalizio criminoso ancora operante, i contatti precedenti dimostrati dal suo protratto stato di latitanza, e l’ipotizzata permanenza, in stato di libertà, di altri membri della cosca, dedotta dal fatto che, secondo le autorità di polizia, ci sono indagati ancora latitanti, sono stati correttamente ritenuti sufficienti per motivare l’applicazione del regime del carcere duro». E non è stata presa in considerazione la sentenza di assoluzione dal reato associativo a lui ascritto nel procedimento penale “Nuova Alba”, perché «si tratta di una sentenza del 2010, nella quale tale delitto era contestato solo come commesso sino al 2007».

Inoltre, il provvedimento del Tribunale del riesame, che annullò un’ordinanza cautelare a suo carico per un delitto non associativo, contestato come commesso nel 2017, è stato ritenuto dalla Cassazione, irrilevante in quanto si trattava di un reato «a cui non è applicabile il regime differenziato e che non è sufficientemente dimostrativo dell’appartenenza o meno ad un’associazione criminosa». In più, la sentenza di questa Corte, allegata al reclamo, è relativa al figlio del ricorrente, per il quale la «sussistenza di sufficienti indizi di appartenenza al clan di quest’ultimo è stata esclusa solo per motivi personali; in essa, anzi, l’esistenza della ’ndrina che si ipotizza essere stata costituita dal ricorrente non viene esclusa, e si ripete, incidentalmente, che quest’ultimo ne è uno dei capi».

Ciò che è stato invece ritenuto rilevante e significativo è la circostanza che il Tribunale del riesame, pur annullando l’ordinanza cautelare emessa a carico di Pugliese in ordine a molti dei reati satellite a lui contestati, l’abbia «confermata quanto al delitto associativo e ad altri reati, in quanto impone di ritenere che per essi è stata affermata la sussistenza di elementi indiziari gravi, sufficienti per applicare la custodia in carcere; tali elementi sono stati, poi, ritenuti idonei anche per rinviare l’imputato al giudizio penale tuttora in corso».

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