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Il luogo del ritrovamento

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VIBO VALENTIA – Solo l’esame del Dna potrà alzare il velo di mistero che circonda il giallo dell’uomo sepolto nella radura dell’Ariola e dare un’identità a quel corpo rivenuto con i vestiti addosso in un telo di cellophane qualche decina di centimetri sotto il terreno (LEGGI). Congetture se ne fanno anche se gli investigatori della Squadra Mobile guidati dal dirigente Fabio Di Lella e della Procura di Vibo con in testa il capo dell’Ufficio, Camillo Falvo e il titolare del caso, Filomena Aliberti, paiono avere le idee chiare.

Ed una di queste – come abbiamo riferito nell’edizione cartacea odierna – vedrebbe quel cadavere appartenere ad una persona del 1967, che risiedeva proprio all’Ariola, scomparsa nel 2016 senza che ne venisse denunciata la scomparsa. Si trattò, almeno ufficialmente, di allontanamento volontario, ma di fatto, da quel giorno, del soggetto in questione non se ne seppe più nulla. E il suo nome è Antonino Loielo.

GUARDA L’INTERVISTA AL PROCURATORE CAMILLO FALVO

Gli inquirenti non confermano e non smentiscono ma, incastrando alcuni particolari – anche la statura, il posto del rinvenimento ed altro –, tale possibilità non viene certo esclusa a priori. Un omicidio, quello dell’uomo ancora senza nome, che secondo il procuratore Falvo «non è collegato alla faida delle Preserre anche se il contesto in cui è maturato è quello». Un cognome pesante, si diceva, quello di Loielo, soprattutto in quest’area. Un cognome che ha una storia criminale ben delineata.

Lo scomparso è cugino dei fratelli Vincenzo e Giuseppe Loielo, che tra la seconda metà degli anni novanta e gli inizi del 2000 dominavano il vasto comprensorio montano. Vennero uccisi nel pomeriggio del 22 aprile del 2002 da un commando formato, secondo le risultanze investigative, dal gruppo facente capo a Bruno Emanuele, boss di Soriano e Sorianello e cecchino dalla mira quasi infallibile. Antonino, poi, scampò ad un agguato la sera del 23 ottobre 2015 in località “Castania”, sempre all’Ariola. La strada era bagnata, resa viscida dalla pioggia che taglia una zona di campagna, come tante si trovano nella vasta area delle Preserre. Un’auto la percorreva con a bordo cinque persone, tutte appartenenti ad un unico nucleo familiare. Ad un certo punto una figura spuntò dal ciglio, si udì un rumore sordo e il parabrezza andò in frantumi. Fu l’inferno. In tre vennero investiti dai pallini del fucile e dalle schegge di vetro. Il conducente, però, ebbe il sangue freddo di dare gas e allontanarsi tra le urla di terrore. Furono dei miracolati. Antonino, il capofamiglia, Sofia, la compagna in dolce attesa al settimo mese, e i tre figli si trovavano a bordo di quell’auto e si erano messi in marcia verso Soriano. Poco dopo aver lasciato il piccolo borgo avvenne l’agguato in perfetto stile mafioso. L’allora 48enne, venne raggiunto al sopracciglio destro ed al torace, la compagna al braccio destro, mentre il figlio Alex, 22 anni, alla mandibola da un proiettile rimasto ritenuto. Miracolosamente illesi, invece, gli altri due figli minorenni.

Due settimane dopo un secondo agguato, ma questa volta contro i rampolli di famiglia: Walter, Valerio e Rinaldo Loielo, fatti oggetto di colpi di kalashnikov. Valerio, 21 anni, (figlio del boss Giuseppe ucciso nel 2002) era alla guida ed è stato l’unico a rimanere illeso; Walter, 22 anni, (fratello di Rinaldo) e Rinaldo, 20 anni (figlio dell’altro boss Vincenzo Loielo, freddato sempre nel 2002 con il congiunto), erano stati, invece, attinti dai colpi. Il primo al volto, alla gola per il quale i medici del pronto soccorso hanno dovuto evitare che soffocasse visto che alcuni proiettili erano rimasti ritenuti, il secondo alla spalla destra.

Agguati che rientravano nella faida, ma non, come detto, l’uccisione dell’uomo ancora senza nome. E allora le domande diventano diverse: se fosse realmente Antonino Loielo quali altri moventi sarebbero alla base della sua eliminazione? E ancora: qualcuno ha vuotato il sacco? Un nuovo pentito, magari? Sì, perché in quel luogo in cui è stato seppellito il cadavere, accessibile tramite quel poco che resta di una strada interpoderale da tempo ostaggio dei rovi, non ci si arriva se non c’è qualcuno che ne indichi la via. Il procuratore Falvo non ha comprensibilmente svelato come ci si è arrivati in quel luogo dimenticato da Dio, parlando di «risultanze investigative» ma pronunciando subito dopo una frase emblematica: «Verranno svelate più in là». Non c’è, dunque, che da attendere.

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