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Dopo cento giorni dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, una crisi umanitaria senza precedenti nella storia del dopoguerra imperversa in Europa. Ancora una volta, infatti, appare evidente quanto le decisioni rese da pochi possano scatenare complesse conseguenze per migliaia di persone, costrette ad abbandonare la propria terra e a vedere stravolta la propria vita. Tuttavia, la crisi in Ucraina non è la sola causa che rende instabile la situazione internazionale: si contano da anni numerose nazioni che vivono una complessa crisi sociale ed economica sia a causa di conflitti interni e instabilità politica, ma anche per le conseguenze dovute al progressivo riscaldamento climatico. Il ruolo del nostro Paese, nell’ottica europea, può e deve essere centrale nella risoluzione di una serie di eventi attraverso l’attuazione di un piano di politiche per lo sviluppo infrastrutturale e gestione delle migrazioni. Di questo abbiamo parlato con il Presidente Nazionale Arci, Daniele Lorenzi.

Presidente Lorenzi, una crisi politica e militare è sempre seguita da una crisi umanitaria. Per la prima volta, dalla seconda guerra mondiale, con l’invasione russa dell’Ucraina le sirene antiaeree hanno suonato di nuovo in Europa. Crede che quest’offensiva fosse prevedibile ed evitabile?

Alle due crisi da lei nominate seguirà un’altra, che genererà ulteriore morte e devastazione: quella economica. Essa porterà il nostro Paese a sperimentare dei disagi non indifferenti dei quali percepiremo a breve. Era evitabile? Sì, come gli otto anni di guerra in Donbass. Putin va sicuramente condannato per l’invasione, ma mi ha seriamente preoccupato del rifiuto di affrontare un’analisi mediatica e politica a 360 gradi sulle motivazioni che hanno spinto un dittatore a invadere un altro Paese. Non possiamo solo limitarci a utilizzare le solite frasi semplicistiche, convenzionali e costruite a tavolino: chiunque abbia tentato di analizzare in modo neutrale questi eventi è stato bollato come filo-Putin, cosa che mi è capitata personalmente. Condanno categoricamente ciò che sta accadendo e identifico Putin come un despota che nulla ha a che fare con quella che è stata l’esperienza dell’ex-Unione Sovietica.

A questo proposito Le chiedo chi, secondo Lei, ha sostenuto Putin a livello internazionale negli ultimi anni.

Risposta molto semplice: la classe dirigente occidentale e italiana, che lo ergeva fino a tre mesi fa ad unico garante della pace europea e modello politico indiscusso. In realtà il Putin dei primi anni di Governo faceva trasparire, almeno apparentemente, una certa apertura e disponibilità al dialogo nei confronti del resto d’Europa, cosa che gli ha fatto guadagnare non poche simpatie. In seguito, ha iniziato ad agire come gli Americani, con una politica di divisione dell’Europa, temendola se unita. Mi chiedo spesso se la Nato voglia davvero la pace – come dice – e trovare un accordo: non è disposta neanche a negoziare sulla Crimea, che fa supporre che la si voglia riprendere militarmente. Poteva essere fatto di più dall’UE: anzi dovrà fare di più se vuole la pace. Oggi più che mai, quindi, ribadisco che serve un’Europa politica per l’indipendenza e autonomia decisionale: ora siamo troppo influenzati da inglesi e americani rispetto a questa vicenda. Per quanto riguarda le sanzioni: inconcepibile che ci venga imposto quali applicare, premesso che la sanzione a mio avviso sono pagate duramente dal popolo, non certo dalla classe dirigente.

Il conflitto sembra dare sempre più l’idea di protrarsi per un lungo periodo e anche se quest’offensiva dovesse giungere a termine oggi, bisogna aspettare decenni per ricostruire le città distrutte e ridare agli Ucraini la quotidianità pre invasione. Finirà?

Prima dobbiamo chiederci quando si fermerà la guerra, perché per parlare di ricostruzione ci deve prima essere la certezza che quanto ricostruito non sia nuovamente raso al suolo. Se finirà? Mi auguro che si apra un tavolo diplomatico su iniziativa e sostegno dell’Europa con delle soluzioni concrete per aiutare l’Ucraina a ripartire e ricostruire. Dico questo perché mi sento coinvolto, come italiano, nella futura ricostruzione: abbiamo finora mandato armi e aiuti economici agli ucraini, anche se come Arci eravamo contrari: ho detestato il paragone con i partigiani, perché ci siamo dimenticati che fino al 23 febbraio parlavamo dell’esercito Azov per i suoi atti terroristici.

E intanto sono già più di 5 milioni gli Ucraini fuggiti dalla loro patria, su cui si pone l’incognita del ritorno. Per loro è stato attivato celermente un programma di integrazione nei Paesi ospitanti. Perché per numeri meno incidenti di migranti, provenienti da paesi africani e medio-orientali, si fa invece tanta difficoltà ad “aprire le porte”? Non trova quello di distinguere la priorità di un migrante in base al luogo di provenienza un comportamento fazioso da parte di rappresentanti delle istituzioni?

Ad oggi abbiamo calcolato un tempo di 6 mesi di ospitalità per i profughi ucraini. Per quanto riguarda questa distinzione, le lascio immaginare le motivazioni: non bisogna però fare confusione tra progressisti e conservatori sulla vicenda, in quanto mentre i conservatori sono per un no secco ad ogni forma di immigrazione, i progressisti non hanno dubbi sul fatto che si debbano salvare vite in mare. Più complesso lo scoglio d superare sui diritti di cittadinanza per chi abita in Italia da oltre 20 anni ed ha ancora problemi burocratici. Per questo è necessario riconoscere il diritto di cittadinanza e lo ius soli. Quindi è giusto integrare i migranti anche nella nostra visione culturale, avendo le consapevolezze non solo dei pro (forza-lavoro), ma anche dei momenti di difficoltà sociali ad integrarsi. 

Il fatto che alle armi si stia rispondendo con le armi mette decisamente in secondo piano gli interessi della popolazione a sopravvivere. Tenere, finché possibile, una finestra aperta?

Come ho già detto, non avrei mandato le armi, ma il Parlamento, inizialmente in modo unanime, ha deciso di mandarle. Positivo che ad oggi una parte della maggioranza inizi ad aprire una riflessione differente (non solo Conte e Salvini), ma anche di alcuni esponenti del Pd come Del Rio e Fassino.  Ci tengo inoltre a sottolineare ancora una volta che la metà degli italiani è contrario all’invio di armi.

Qualcuno arriva a parlare del non scontato pericolo di un impiego di armi nucleari: si sta dando vita ad una nuova polarizzazione tra blocco occidentale ed autocrazie asiatiche.

Non metto da parte alcun rischio, ma vedo che i toni si stanno abbassando e lo stesso Putin, rispetto alla situazione, sembra moderarsi perché secondo qualcuno avverte il peso di una sconfitta. A proposito di questo la penso come Macron: si arriva ad una soluzione se non si alzano i toni. La cosa che più mi ha rattristato è stato il fatto che i media nella prima fase fossero compatti contro chiunque volesse ragionare sulla questione. Sta finalmente emergendo con forza la strumentalità americana e inglese rispetto a tutta questa vicenda e sta trovando spazio, come da me ampiamente auspicato, una visione né filo-Nato, né filo-Russa, ma semplicemente filo-Europea; d’altronde l’Ucraina è parte dell’Europa: chi più degli europei trova realmente interesse per la questione?

Nel 2021 nuove crisi geopolitiche, molto diverse tra loro, in Myanmar, Tunisia e Afghanistan, hanno sconvolto la vita di milioni di persone, aprendo nuovi flussi migratori, vietando i diritti di donne e minoranze, perseguitando gli oppositori politici. Le derive autoritarie di questo genere sono sempre più frequenti, specialmente in nazioni che già versano in condizioni di estrema precarietà. Che ruolo può assumere il nostro Paese per evitare che eventi del genere abbiano ripercussioni sull’Europa? Come il nostro Paese e i partner Europei possono finanziare e investire questi Paesi per far uscire da questo Stato di crisi perpetua Paesi come Yemen ed Eritrea?

Si tratta di situazioni molto diverse tra loro: la Tunisia ad esempio ha ragioni economico-politiche, l’Afghanistan è strapiombata sotto ogni aspetto in una situazione che difficilmente sarà cambiata a breve termine. In questi Paesi, in altri tempi, avevamo un ruolo molto più importante, specialmente in Palestina e Nord Africa. L’equilibrio dell’ultimo ventennio del ‘900 che si respirava nelle aree dove esercitavamo la nostra influenza è stato interrotto da quelli che definiamo alleati. Dopo avergli permesso di fare ciò, abbiamo rinunciato alle nostre influenze per una debolezza di cultura politica. Ciò che consiglierei ai leader politici è di puntare tutto sull’Europa, facendo parte l’Italia dei tre Paesi che possono essere trainanti rispetto all’idea di Europa politica che difende i suoi interessi in primis ed assume un peso nello scacchiere globale: abbiamo costituito un’unione economica, ora ci vogliono gli Stati Uniti d’Europa, subito!

Spesso l’idea di esportare democrazia ha finito per distruggere Paesi prima certo non liberali e democratici, ma stabili politicamente e in via di sviluppo economico ed industriale, come la Libia. Non crede che queste forzature abbiano ormai causato agli abitanti di queste aree più problemi di quanti ne avessero prima?

Senza dubbio. In Libia o in Egitto esiste ad oggi una democrazia? La verità è che Gheddafi disturbava qualcuno che aveva interessi economici. In Afghanistan che democrazia abbiamo esportato? La guerra è fine a se stessa e non può essere giustificata da alcun nobile ideale.  È  per questo che idealmente il mondo avrebbe bisogno di un equilibrio geopolitico globale, che ad oggi purtroppo non esiste e la responsabilità di ciò ricade su precisi Paesi. Oggi esportare la democrazia è diventato poco credibile come motivo per invadere e distruggere un Paese non allineato: il livello di democraticità se lo conquistano gli abitanti di un Paese. Giusto ricordare che anche livello di democrazia che hanno in mente anche quelli che si oppongono a Putin è diverso dal nostro. La democrazia decade anche nel nostro Paese, dove la metà degli elettori non si esprime a causa del disinteresse e della poca credibilità delle istituzioni. Chi non si sente rappresentato sarà facilmente influenzato dai nuovi populisti e demagoghi, che appariranno più idonei a governare rispetto ai corrotti che ci sono da sempre. Penseranno: meglio un uomo che comanda concretamente che una democrazia che non rappresenta. Un tempo le sezioni dei partiti rappresentavano il cuore della democrazia, oggi non esistono più i partiti.

Si sanziona ed esclude, legittimamente, la Russia dal consiglio dei diritti umani ONU: ma non trova paradossale che vi possano comunque trovare spazio regimi autoritari e oppressivi come quello dell’Arabia Saudita o Cuba?

Sicuramente, ma sono situazioni diverse, ovviamente se interpretate dal punto di vista degli occidentali. Il tutto è alquanto paradossale, ma siccome gli arabi, pur avendo un sovrano che può decidere la vita e la morte dei suoi sudditi, non intralciano i nostri interessi e anzi garantiscono una serie di equilibri, la democrazia passa in secondo piano. Con Cuba, invece, parliamo di un Paese povero e senza risorse che riesce a garantire il welfare, ma vive sotto sanzioni da decenni perché non allineato.

di Matteo Galassi

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