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Non siamo a “la peste infuria, il pan ci manca…”, ma l’umore non è dei migliori. Fra le convulsioni della guerra in Ucraina, l’orrore del sangue versato in Medio Oriente, le discordie sulle regole europee in tema di bilanci pubblici, la spesa di Natale che costa di più, l’“un contro l’altro armato” che riga i corpi sociali in Italia, in Francia, in Germania, in Olanda, in America…, spiccano tuttavia i record delle Borse. Perché siamo ai massimi storici in Europa, perché Wall Street è cresciuta più di tutti dall’anno felice (si fa per dire) prima della pandemia?

Prima di azzardare risposte, guardiamo ai dati. Come si vede dagli indici di Borsa per Usa, Germania, Italia e Cina, a partire dal gennaio 2019 (fatto uguale a 100), l’Italia e la Germania (nell’ordine) hanno superato i massimi storici; gli Usa ci sono vicini, ma in compenso le quotazioni di Wall Street hanno la distinzione di essere cresciute, a partire dall’inizio periodo, più degli altri. La Cina non solo è la più lontana dai massimi, ma ha anche la performance peggiore nell’anno che si va a chiudere.

E questo malgrado possa vantare, per quest’anno, il più alto tasso di crescita rispetto ai Paesi di là e di qua dell’Atlantico e anche rispetto alla media mondiale. Questa discrasia è difficile da spiegare: talvolta si è tentati dal parafrasare, per la Cina, quello che Churchill disse (ottobre 1939) a proposito dell’Unione sovietica («Non posso prevedere le azioni della Russia. È un indovinello, incartato in un mistero, avvolto in un enigma…». Ma è vero che si notano crepe sia nel suo modello di sviluppo sia nelle relazioni col resto del mondo. E il mercato azionario trasmette queste sensazioni di debolezza.

Tuttavia, gli andamenti degli indici nominali non sono i più adatti per giudicare la forza dei mercati azionari. Nell’ultimo lustro i prezzi di beni e servizi sono stati squassati prima dalla deflazione e poi dall’inflazione: la prima è stata la più intensa del dopoguerra, la seconda la più forte dai tempi delle crisi petrolifere. È quindi opportuno deflazionare gli indici di Borsa con gli andamenti dei prezzi al consumo: questi ‘indici reali’ sono raffigurati nel grafico.

Come si vede, in termini reali nessuna area ha superato i massimi storici di fine 2021, anche se l’Italia è la più vicina a quei record (e la Borsa italiana è quella che è cresciuta di più negli ultimi dodici mesi, sia in termini nominali che reali). I dati più recenti sono molto più vicini fra loro rispetto agli indici nominali (la Cina si avvantaggia di un’inflazione più bassa) ma conservano le rispettive gerarchie. E comunque, non solo tutti gli indici sono ben al di sopra del dato di inizio periodo, ma anche hanno registrato una crescita che rappresenta un multiplo dell’aumento del Pil reale dal 2019 ad oggi (eccetto nel caso della Cina).

Torniamo allora alla domanda iniziale: perché le Borse vanno bene malgrado pandemie e guerre e sfrangiamenti del tessuto sociale? Visto che questi andamenti positivi durano da un quinquennio, le risposte devono affondare nella struttura e non solo nella congiuntura. Se dovessimo parlare di fattori solo congiunturali, potremmo dire che le Borse hanno beneficiato del fatto che le imprese hanno potuto difendersi dall’inflazione meglio delle famiglie (e non è solo questione di difesa, ma anche di ‘offesa’: hanno attivamente contribuito all’inflazione con un aumento dei profitti).

Gli aspetti strutturali sono tuttavia più importanti, e in particolare il progresso tecnico. I rimescolamenti e le innovazioni in corso, con fertilizzazioni incrociate che vanno dalle biotecnologie alla telematica, dall’intelligenza artificiale (IA), dalla transizione ecologica alla digitalizzazione, hanno spinto le quotazioni. Forse c’è stata qualche esagerazione. Non è inutile ricordare che alla fine degli anni Novanta e poco dopo, le Borse erano ipnotizzate dall’Internet, e qualsiasi società che mettesse nel nome un “dot.com” vedeva lievitare le quotazioni; per esempio, la Corvis (un’impresa americana che disegna e realizza reti “intelligenti” per la trasmissione ottica delle informazioni) andò in Borsa nel giugno del 2000, pur senza mai aver avuto un utile (gli inizi, si sa, sono sempre difficili…).

Le azioni, offerte a 32 dollari, raggiunsero dopo poche settimane i 114 dollari; a quel livello, la Corvis valeva più della… General Motors. Ma nel 2001 le azioni scesero a un dollaro e 19 centesimi: il prezzo di un paio di stringhe da scarpe.

Casi clamorosi come quello della Corvis non si sono verificati adesso, ma è vero che qualsiasi società, consolidata o start-up, che abbia progetti di IA ha visto forti aumenti delle quotazioni. È equo, tuttavia osservare che, dietro all’euforia, ci sono valide ragioni: la IA c’è, ha grandi promesse e grandi pericoli e … grandi profitti in prospettiva. Ma dietro alle prodezze dei mercati azionari ci sono anche altre meno avventurose ragioni.

Basta guardare all’occupazione, che è stata la vera sorpresa di questo ciclo, in Europa come in America: quasi a smentire quanti paventano che i progressi della tecnologia distruggeranno posti di lavoro, questi sono lievitati, specie nei servizi alla persona, nella sanità e nel turismo. Il potere negoziale dei lavoratori sta aumentando, col che i salari aumentano anch’essi e sostengono la domanda. I sistemi economici hanno sopportato con più resilienza del previsto gli aumenti dei tassi, e le Borse guardano a un 2024 che vedrà abbassarsi il costo del danaro, con benefici per il valore scontato dei profitti futuri.


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