Donald Trump
5 minuti per la letturaFrena Donald Trump sui dazi: tariffe al 10% per 90 giorni, l’apertura del tycoon; Ma rincara al 125% alla Cina e allarga così lo scontro
Ribaltare il tavolo. A questo ci ha abituati il presidente Donald Trump che, con una mossa degna del suo stile, ieri ha voluto mostrare ancora una volta l’imprevedibilità della propria strategia. Dopo settimane di tensioni politiche ed economiche ai massimi storici a seguito della campagna protezionista da lui lanciata, l’inquilino della Casa Bianca ha infatti annunciato una moratoria di 90 giorni sui dazi per tutti gli Stati colpiti, con tariffe abbassate alla soglia minima del 10% in attesa di negoziati bilaterali. Un sollievo soprattutto per l’Italia, che auspicava esattamente questo scenario, ma soprattutto un decisione dettata dalla presa di coscienza di aver compattato quasi tutto il mondo contro di sé. Esclusa dalla “grazia” trumpista solo la Cina, verso cui anzi il tycoon ha annunciato una nuova esclation al 125%.
Pechino paga così l’essere stata l’unico paese ad aver reagito ai dazi trumpiani con altri dazi di pari valore. Dopo essere stata colpita da dazi al 34% il 2 aprile, la Cina ha risposto due giorni più tardi infliggendo a Washington una rappresaglia di egual misura e scatenando così l’ira di Trump. Dopo un ultimatum caduto nel vuoto martedì scorso, gli Stati Uniti hanno così punito i cinesi con un dazio aggiuntivo del 50% a cui ha fatto immediatamente seguito una contromisura di Pechino di pari valore. Ma per capire l’entità del sisma che ha colpito ciò che restava della globalizzazione dobbiamo guardare ai numeri.
Secondo i dati riportati dall’ufficio del Rappresentante commerciale statunitense, nel 2024 l’interscambio commerciale sino-americano si è attestato su cifre monstre: gli Stati Uniti hanno esportato in Cina beni dal valore di 143.5 miliardi di dollari e hanno importato 438.9 miliardi in prodotti di viario genere, per un interscambio totale di 582.4 miliardi, il più grande del mondo. Proprio le pieghe di queste cifre si nascondono gli elementi che guidano la postura americana riguardo alla crisi commerciale: da un lato infatti Washington vede la differenza tra le importazioni e le esportazioni (il cosiddetto disavanzo) come una sorte di frode, una stortura da correggere per impedire a Pechino di approfittarsi dell’industria americana; dall’altro la Casa Bianca sembra apparentemente convinta che la Cina sia in una posizione di debolezza, non potendo permettersi di rinunciare a un mercato che ogni anno gli permette di vendere oltre quattrocento miliardi in merci.
Questo pensiero alimenta la strategia massimalista di Trump, nel convincimento che sarà Pechino a cedere per prima. Del resto, il tycoon lo ha detto a chiare lettere: «Ora tutti mi chiamano per baciarmi il c**o» ha affermato martedì sera il tycoon riferendosi ai Paesi desiderosi di negoziare con Washington la fine dei dazi, anche attraverso delle concessioni nei riguardi delle richieste americane. Xi Jinping, insomma, non dovrebbe fare altro che mettersi in fila insieme agli altri e piegarsi alle sue domande o rischiare la débâcle economica.
Ma dall’altra parte del Pacifico la lettura delle medesime cifre è diametralmente opposta: è l’America a dipendere dalle merci cinesi, senza le quali i banconi dei negozi statunitensi rimarrebbero vuoti scatenando una corsa agli acquisti e un’inflazione fuori controllo tali da costringere Washington a tornare sui suoi passi. Sono proprio queste opposte convinzioni ad alimentare un “gioco del pollo” in cui entrambe le parti continuano a perdere sicure che l’avversario lascerà il tavolo prima di loro.
L’aspetto economico non è comunque il solo da tenere in considerazione, soprattutto per quanto riguarda la Cina, dalle cui parte la prospettiva di una guerra commerciale non è mai stata considerata come una banale questione di dazi e dogane bensì come il sintomo di uno scontro geopolitico più vasto. In un fortunato libro della fine degli anni novanta, entrato poi tra i capisaldi della strategia cinese e tradotto in italiano col nome di “Guerra senza limiti”, due colonnelli cinesi descrissero abilmente come l’evoluzione dei metodi per condurre un conflitto avesse aperto la strada a nuovi piani su cui praticare la guerra, tra cui quello commerciale. Per Pechino, dunque, una guerra commerciale è indistinguibile da una guerra vera e propria, fatto salvo per i mezzi eterodossi, dal momento che ne condivide l’obiettivo, cioè la distruzione della posizione avversaria.
Per parafrasare il celebre pensatore Carl von Clausewitz, l’economia sarebbe solo il proseguimento della politica con altri mezzi, insomma. Così nei palazzi cinesi la guerra commerciale trumpiana non è letta come un disputa valutaria, bensì come un tentativo – nelle loro stesse parole – di ingerenza mirato a imporre un’egemonia economica globale, a costringere tutte le economie del pianeta ad adeguarsi ai bisogni di quella statunitense. Una richiesta naturalmente irricevibile per il Dragone il quale, fedele alla propria interpretazione della guerra commerciale, ha rilanciato allargando negli ultimi giorni via via il raggio d’azione delle sue ritorsioni.
Pechino avrebbe quindi ordinato alle proprie banche pubbliche e private di ridurre al minimo gli acquisti di dollari sui mercati internazionali, provocando un tremito che nella giornata di ieri a causato la caduta della valuta americana. Il timore di una mossa cinese contro la più importante moneta di riferimento nelle contrattazioni internazionali ha a sua volta innescato una corsa alla vendita dei titoli di Stato a stelle e strisce che ha trascinato con sé il valore dei bond del Tesoro americano, anche se non in maniera drammatica. La Cina insomma tocca tutti i tavoli, per segnalare a Washington che una guerra economica totale non si limiterebbe soltanto ai reciproci dazi contrapposti e che Pechino è pronta a lottare su tutti i fronti.
Avvertimento caduto apparentemente nel vuoto: nelle stesse ore infatti il segretario del Tesoro americano Scott Bessent, intervistato a Fox News, non escludeva la possibilità di escludere le azioni di aziende cinesi dalle borse americane. Un’azione radicale ma che ben illustra lo stato di lacerazione che vive la diplomazia internazionale. La notizia secondo cui il nuovo governo tedesco starebbe valutando l’ipotesi di trasferire in patria le proprie riserve auree, attualmente detenute nei caveau delle banche americane, nel timore che Washington possa sequestrarle come strumento di pressione, fa capire quanto l’azione trumpiana abbia deteriorato ormai i rapporti tra gli Stati.
Il risultato è una sorta di “grande balzo all’indietro”, ma questa volta da parte americana invece che cinese. Una retromarcia nel nome della cancellazione della globalizzazione e di un ritorno a una mitica “Golden age”. Donald Trump, nel suo tentativo di saltare dentro la Storia, ci sta saltando contro. Resta solo da vedere se finirà per trascinare anche il resto del mondo con lui.
La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA