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Rimaniamo nel limbo che ci porta alla deriva della nuova Grecia. Per fortuna, in panchina abbiamo ancora una classe dirigente e sarà il popolo a convocarla d’urgenza

Ogni giorno chi ci governa si occupa della cosa del giorno male, approssimativamente. Spesso per slogan, in un senso o nell’altro a seconda delle convenienze. Ogni giorno qualcuno dei nostri governanti scopre l’acqua calda: crolla la produzione tedesca abbiamo un problema in casa, cresciamo meno della Grecia, ma davvero? Non c’è un treno veloce da Napoli a Reggio Calabria, ma che dice? Non sanno, non leggono, non si informano. Scoprono e balbettano su Facebook, magari qualcuno scrive per loro, ci mettono la faccia, a volte anche la voce.

Se potete, avvisateli che è iniziata la stagione delle barbarie con l’eliminazione del generale iraniano Soleimani su ordine di Trump e che siamo sull’orlo di una guerra in Medio Oriente e di un’altra in Libia. Sono dieci anni che non cresciamo mai davvero, nessuno come noi non ha mai raggiunto i livelli pre-crisi del 2008, né il “mitico” Nord né il Sud pasticcione, rischiamo una deriva greca a scoppio ritardato, ma che dite? Spiegatelo ai nostri politici e ai nostri uomini talk, per loro non è successo nulla, gli stipendi vanno e vengono, il tenore di vita è immutato, ma davvero nel novembre del 2011 eravamo a un passo dal diventare la nuova Grecia o la nuova Argentina, fate voi, ma dài, a chi la volete raccontare?

Tutte balle, il reddito delle donne e degli uomini del Sud, per la prima volta, è poco più della metà di quello dei cittadini del Nord? Ma chi lo dice? Il 75% delle imprese di costruzioni ha chiuso? Ma davvero? Ma sta scherzando, mi scusi, dove si trova questo numero? Un quarto della produzione industriale è andato in fumo? Siete sicuri? Ve lo ha detto qualcuno che conosce i numeri? Abbiamo avuto due grandi crisi globali, Finanziaria e Sovrana, e hanno prodotto insieme danni per l’Italia superiori a quelli di una terza guerra mondiale persa? Ma va là, a chi la vuole raccontare? I politici non ci credono. La crisi non la vedono, non la percepiscono, non hanno mai metabolizzato il rischio enorme che si è corso e che si continua a correre con un Paese fermo da dieci anni. Lo sa bene chi sta molto male, e sta sempre peggio, ma lì in alto nella nuova casta politica dove si litiga perché tizio o caio non ha versato l’obolo a Casaleggio questa sofferenza non arriva, si fa presto a dimenticare da dove si è partiti.

L’economia va malissimo? Ma proprio male? Sì, proprio male, oggi cresciamo meno della Grecia, il Sud italiano si sta staccando definitivamente dal Nord italiano nel silenzio complice di tutti, e le banche che fanno? Se l’economia va malissimo, voi che dite, forse vanno male anche le banche, non tutte ovviamente? No, per carità, chi glielo spiega al signor Paragone, meritoriamente espulso dai Cinque Stelle, che le banche non vanno perché l’economia non va indipendentemente se sono ben vigilate o mal vigilate.

Per lui e i suoi amichetti nei talk vanno o non vanno se sono più o meno vigilate, in realtà vanno o non vanno se l’economia va o non va.

Piuttosto se sono ben vigilate ne saltano di meno, come è successo in Italia dove rappresentano il 10% degli attivi totali, costano alla collettività italiana molto (molto) meno di quanto sono costate alla collettività tedesca, ma che le banche siano un’industria in crisi, soprattutto nei territori abbandonati del Sud, dovrebbe essere una nozione acquisita. Piuttosto mi preoccuperei di cambiare il loro rapporto con le aziende del territorio, di uscire dal formalismo che aumenta il numero delle imprese sane che sono strozzate dallo Stato cattivo pagatore e dalla banca che marchia a vita chi una volta non ce l’ha fatta per colpe magari non sue. Piuttosto mi preoccuperei di aprire i cantieri e fare le infrastrutture di sviluppo nel Mezzogiorno prima di fare la banca del Mezzogiorno perché anche questa funziona se funziona l’economia, se si decide che non esistono più figli e figliastri e che è che interesse del Nord prima ancora che del Sud la riunificazione infrastrutturale e industriale del Paese. Chi ha trafficato e rubato, al Nord come al Sud, in un circuito perverso di banchieri e imprenditori disinvolti, risponda ovviamente alla magistratura e ne paghi il conto senza riguardi di sorta.


Matteo Renzi oggi sostiene con la sua Italia Viva il governo Conte 2 e dice una cosa giusta: apriamo i cantieri e diamo lavoro vero. Quando ha governato lui, però, ha fatto la stessa cosa (un po’ meglio) di quello che hanno fatto pentastellati e leghisti con reddito di cittadinanza e quota 100. Anche lui ha dato i soldi per aumentare la domanda interna, i famosi 80 euro, e fare incetta di voti, per questo quando oggi dice di aprire i cantieri, e dice la cosa giusta, non appare credibile, trasmette la sensazione di chi agisce perché vuole occupare uno spazio politico lasciato libero da tante dissennatezze e incompetenze diffuse. Andrebbe ovviamente ascoltato.

Mettiamoci nei panni di chi ci osserva da fuori: sul piano politico siamo un punto interrogativo enorme, né chi sta al governo né chi sta all’opposizione vuole davvero andare al voto. Per i primi gestire il potere è un esercizio a cui ha preso gusto, i secondi sanno bene che se vanno al governo sono fatti loro, che la tragedia italiana è tutta lì e li attende al varco. Scappano entrambi gli schieramenti, sono entrambi divisi e litigiosi al loro interno, ma soprattutto hanno paura di misurarsi con la realtà. Perché resta incerto il ruolo dell’Italia sui mercati se non taglia il debito pubblico, ma con un governo del giorno per giorno il debito può solo salire e stiamo sprecando la più clamorosa e ininterrotta sequenza di avanzi primari della storia economica dei Paesi occidentali.

Servirebbe un governo con una prospettiva minima di cinque/dieci anni e un progetto Paese chiaro, riconoscibile che chiami a raccolta le migliori intelligenze e mobiliti le coscienze. Invece no, rimaniamo nel limbo italiano che prepara l’uscita dalla deriva greca per diventare tout court la nuova Grecia dove tra Ilva, Alitalia, Popolare di Bari, crisi tedesca che mette fuori mercato la sua appendice meridionale di subfornitori e contoterzisti delle vallate bresciane, bergamasche e emiliane, tutto si addensa in unico grande calderone che brucia il lavoro e le speranze delle due Italie. Gli animi dei cittadini-elettori, che non si sa neppure più che cosa pensano, si scaldano solo con “prima gli italiani” di chi è scappato a gambe levate dal governo perché non ne sopportava il peso come Salvini senza che nessuno di chi è rimasto alla guida del Paese e di chi è venuto a fargli compagnia sappia almeno controreplicare con “prima i giovani”, prima gli anziani, prima il piano regolatore della tua città, prima le metropolitane, prima i treni veloci, prima l’università, prima il turismo culturale, prima la ricerca, prima qualcosa per cui vale la pena di impegnarsi.

Basta, se non si vuole continuare a prendersi in giro, questo Paese ha un disperato bisogno di chiedere aiuto a chi conosce e sa fare. Ha un disperato bisogno di un governo con una prospettiva di lungo termine, che lo conduca fuori dalla più incompetente e pericolosa delle precarietà, che faccia cadere a uno a uno tutti i nidi delle microconvenienze che gli innovatori del talk unico si sono scavati sotto i tetti di questa grande confusione. Abbiamo bisogno di un governo che ritrovi il bandolo delle sue alleanze internazionali e si proponga alla comunità globale degli investitori che è piena di quattrini da investire con un progetto Paese chiaro e riconoscibile. L’unica cosa che non interessa a questi investitori è quella che appassiona da mattina a notte il talk unico dell’informazione italiana: come si dissolveranno i Cinque Stelle, dove andranno, chi resterà con Di Maio, chi seguirà Di Battista e Paragone? Quanti si accucceranno dietro il più trasformista e lottizzato di tutti il succitato “statista” Paragone sotto le tende padano-nazionali di Salvini & C. ? Povera Italia!

Ricordate la crisi asiatica? Arrivarono le nazionalizzazioni, le banche furono svalutate del 20%, Stiglitz protestò contro gli interventi del Fondo Monetario Internazionale, anche all’Ocse erano perplessi, ma la Corea ripartì perché si diede un progetto Paese. Scommise sulla conoscenza, sul passaggio dal materiale all’immateriale, decisero che sarebbe diventata la società della conoscenza e Samsung un marchio mondiale. Potremmo chiederci perché non lo abbiamo fatto noi, ma non avrebbe molto senso. Chi segue questo giornale sa che eravamo i primi nelle telecomunicazioni mondiali e abbiamo distrutto tutto tra un passaggio e l’altro di un capitalismo privato tanto rapace quanto incapace. Oggi l’Italia può ripartire solo con un Progetto Paese che ponga al centro delle sue politiche di crescita il Mezzogiorno investendo sulle infrastrutture di sviluppo. Qui c’è la potenzialità inespressa dell’economia italiana e il primo mercato di “esportazione” dei prodotti del Centro-Nord. Si prendano impegni da qui a tre anni per fare l’alta velocità ferroviaria anche da Napoli a Bari e da Napoli fino a Reggio Calabria/Palermo. Napoli, dove ci sono un aeroporto internazionale e una metropolitana che funziona e dove arrivano i treni veloci, con tutti i suoi difetti, è al top nell’attrazione di turismo internazionale. Occorre un progetto Paese che metta al centro il Sud e assicuri all’Italia intera, da una parte, una dimensione infrastrutturale e industriale decenti e, dall’altra, un’offerta turistica innovativa di livello internazionale. Entrambe le sfide passano per la sua riunificazione nelle condizioni ambientali. Di tutto si parla meno che di quello che serve. Non vi spaventate, ma sembra proprio la Grecia populista-sovranista prima della buriana. Da noi la Grecia non arriverà perché c’è chi tiene le fila, in casa e in Europa , che ha la consapevolezza profonda delle cose e sa che il Paese ha preservato una classe dirigente. Ne abbiamo a malapena una, certo, e la teniamo in panchina, ma tutti sanno che per fortuna esiste. Se continua la melina insopportabile di questi giorni sarà il popolo a convocarla d’urgenza.


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