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Il presidente del Consiglio, Mario Draghi

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L’Italia deve scegliere il riformismo vero e uscire dal massimalismo. Bisogna che il processo serio di autocritica condotto da Di Maio diventi patrimonio condiviso di sovranisti e populisti. Perché i problemi del mondo reale non si possono risolvere restando con la testa nel mondo dell’irrealtà di prima. Che cosa deve ancora succedere perché soprattutto le componenti meridionali dei partiti in parlamento si rendano conto che la manovra espansiva voluta da Draghi è la loro ultima spiaggia? Che, al posto di brigare in inutili manovre di sottobosco, debbono operare congiuntamente perché si finanzi l’acquisto di competenze nelle amministrazioni meridionali? Perché si renda possibile attuare il Pnrr che dopo mezzo secolo torna a privilegiare i loro territori e a fare quindi l’interesse generale dell’intero Paese? 

QUALE è il riformismo che serve a questo Paese? Quanti riformismi esistono visto che ognuno ne parla a modo suo? All’Italia serve un riformismo che sa lavorare con metodo sulle riforme. Che per il vero riformista non sono riformette, ma un cambiamento ragionato rispetto ai nostri guai.

Nel massimalismo le riforme sono nominalmente le stesse, ma non sono ragionate. Dobbiamo rivedere il sistema fiscale, certo, sono tutti d’accordo, ma il riformista sa che può farlo solo con un ragionamento circolare dentro una analisi approfondita che rende possibile la revisione effettiva del sistema  a partire dalla riduzione dei prelievi fiscali e contributivi su lavoratori e imprese. Invece il massimalista pensa che l’importanza sia la riforma e, cioè, la parola magica che racchiude tutto e magicamente risolve il problema.

Non è mai stato così e a maggior ragione non lo è in un momento  di crisi globale pandemica con ondate senza fine e di un nuovo ‘29 mondiale economico e sociale.  Siamo arrivati all’esame più complicato per questo Paese dove o si fanno le cose e allora ripartono gli investimenti che provano a ricucire l’Italia slabbrata del ventennio regionalista senza crescita o si fa una brutta fine. L’eccesso di poteri interdittivi per così dire quirinalizi o presunti tali e i calcoli elettorali che armano le resistenze più o meno organizzate rischiano di trasformare una capacità di compromesso intelligente nell’azione di governo in uno stallo molto preoccupante. Si rischia di tornare ai tempi dominati dall’egemonia culturale e politica della solita frase: bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima.

Siamo a fare i conti con il potere dei Gattopardi dei partiti.  Si è visto il segno di questo colpevole atteggiamento che misura la inadeguatezza della nostra classe politica più nelle manovre che hanno accompagnato il prima e il dopo del varo del disegno di legge annuale sulla concorrenza che non in quelle della delega fiscale che ha un orizzonte temporale più lungo e permette di fare sintesi più avanzate.

Il punto che sembra tornare a emergere è che ognuno di questi 945 parlamentari ha dietro di sé interessi di qualche provincia, di qualche categoria, di qualche comitato, di qualche concessionario e tutti insieme sono pronti a smontare anche quel poco di vero che c’è nella legge sulla concorrenza come i controlli sulle imprese meno vessatori  –  opera di  Brunetta  – e la riforma dei trasporti locali messi a gara con i bandi, e fare altresì muro sui privilegi dei tassisti come dei “proprietari abusivi” degli stabilimenti balneari o magari fare sparire i controlli già non vincolanti della  Corte dei conti e dell’Antitrust.

Lo stesso, identico atteggiamento che si intravede nei comportamenti di molti parlamentari che hanno la certezza matematica di non potere più tornare in Parlamento e hanno come sola occupazione quella di brigare politicamente perché la legislatura arrivi alla sua chiusura naturale galleggiando e mai facendo. Questo è addirittura intollerabile perché siamo davanti alla quarta ondata del Covid che ha messo in ginocchio mezza Europa e il miracolo sanitario e di crescita economica ottenuto grazie all’azione del governo di unità nazionale si deve misurare con il banco di prova più impegnativo.  

Che cosa deve ancora succedere, mi chiedo, perché soprattutto le componenti meridionali dei partiti in parlamento si rendano conto che la manovra espansiva voluta da  Draghi  è la loro ultima spiaggia? Che, al posto di brigare in inutili manovre di sottobosco, debbono operare congiuntamente perché si finanzi l’acquisto di competenze nelle amministrazioni meridionali? Perché si renda così possibile davvero attuare il  Piano nazionale di ripresa e di resilienza che dopo mezzo secolo torna a privilegiare i loro territori e a fare quindi l’interesse generale dell’intero Paese?  

Ma è possibile che non ci si renda conto che  Draghi  ha fatto rialzare un Paese morto in casa e nel giudizio unanime del mondo, ma che il morto ritornato in vita deve ora camminare, anzi correre, e tutto ciò è incompatibile con i gattopardismi di prima? Ma davvero davvero possono pensare i partiti italiani che bastano pochi mesi di buon governo per ritornare subito al chiacchiericcio della politica politicante di sempre rimettendosi a giocare come sempre sul Quirinale prescindendo da ogni ragionamento serio su qual è l’interesse generale del Paese?

Questo Paese deve scegliere il riformismo vero e uscire dal massimalismo. Bisogna che il processo serio di autocritica condotto da Di  Maio  diventi patrimonio condiviso di sovranisti e populisti. Perché i problemi del mondo reale non si possono risolvere restando con la testa nel mondo dell’irrealtà di prima. 


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