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Antonio Tajani ha qualcosa da dire a Giorgia Meloni oggi alla Camera

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Sarà giudicata dalla capacità di attuare gli investimenti che riunificano le due Italie e di fare o rendere esecutive le riforme della giustizia come della pubblica amministrazione, della concorrenza come della scuola e dell’università. Sarà giudicata dalla capacità di dare risposte concrete a imprese e famiglie senza fare scostamenti di bilancio. Non se lo dimentichi neppure per un istante perché l’alternativa alla rotta del realismo e della responsabilità nella politica economica e nella politica estera, che è fatta di azioni concrete che producono effetti giorno dopo giorno, è esattamente quella del Cigno nero italiano del 2011. Sulle sue spalle ci sono l’onore e la responsabilità della politica italiana che si gioca tutto di fronte al mondo e alla comunità nazionale. Sarebbe bene che lo capissero anche le opposizioni per fare il loro mestiere senza il mantra dell’ideologia.

UN DISCORSO da leader politica della prima donna premier italiana che ha un’idea di futuro per sé e per il Paese di conservatorismo moderno. Che ha l’intelligenza di mettere nel suo Pantheon femminile Tina Anselmi e Nilde Iotti e è capace di regolare i conti della storia con l’orrore delle leggi razziali fasciste. Che misura le parole sull’economia e sulla collocazione internazionale del Paese in un esercizio di responsabilità che appartiene a chi ha capito che l’instabilità finanziaria non è un problema che riguarda altri. Che, per questo, si fanno le cose che si possono fare e non si fanno le cose che non si possono fare. Per lo meno, non si fanno adesso.

Salvini e Berlusconi se ne devono fare una ragione e tutti i capipopolo degli scostamenti di bilancio della rovina italiana tacciano almeno per un po’. Il pericolo Truss per l’Italia non esiste. Non è poco, soprattutto non era affatto scontato. Il lavoro di Mattarella e Draghi ha dato i suoi frutti che appartengono al prima e al durante e, dobbiamo sperare, al dopo. Se si è partiti, però, dentro lo schema del Paese Fondatore dell’Europa che vuole perseguire, con declinazioni differenti tra assetto federale e diversità nazionali, lo stesso identico obiettivo di un soggetto politico forte che agisca sulle grandi questioni strategiche, a partire dall’energia, vuol dire che non si interrompe il cammino italiano della sintassi europeista e della grammatica dei mercati che ha le sue regole e va rispettato. Anche questo, soprattutto agli occhi degli osservatori internazionali, non era affatto scontato.

Non esiste oggi un caso Italia sui mercati perché c’è stata una transizione ordinata dal governo di unità nazionale guidato da Draghi all’esecutivo politico della Destra guidato dalla Meloni, ma anche perché dai giorni della campagna elettorale chi ha oggi la responsabilità di governo ha dismesso l’abito della irresponsabilità e si è mossa nei binari obbligati del treno italiano. Che sono dettati dalla guerra di invasione di Putin in Ucraina, dalle grandi crisi economiche e sociali determinate dal ricatto putiniano sul gas, e dal rischio sottovalutato da tutti solo in casa nostra di una nuova grande crisi finanziaria. Qualcosa che ricorda da vicino il Cigno nero italiano del 2011 che ha toccato i debiti sovrani dei Paesi del Sud Europa e i subprime del Cigno nero anglosassone del 2008/2009 che ha riguardato il mondo della finanza. Anche questo non era affatto scontato.

Sul Mezzogiorno sono state dette parole importanti con un tasso positivo di convinzione, quasi di passione civile, che mal si concilia con la scelleratezza della autonomia differenziata, ma che preserva in sé una spinta motrice che è la naturale prosecuzione della coerenza meridionalista degasperiana del Piano nazionale di ripresa e di resilienza ma provando anche a parlare al cuore delle persone. Si sono avvertiti il senso profondo della dignità del lavoro e la forza della priorità assoluta riconosciuta alla riunificazione infrastrutturale delle due Italie, l’importanza di investire sul capitale umano e gli obblighi morali da rispettare nei confronti dei nostri giovani di talento.

La scelta strategica del Mediterraneo e della industria del mare che delineano insieme il perimetro del progetto a medio termine che fa per la prima volta dei territori meridionali e di venti milioni di persone non un problema ma un’opportunità di sviluppo per l’intero Paese. Il richiamo alla legalità come stella polare dell’azione di governo riguarda l’intero Paese, che paga nei suoi territori più ricchi il conto di opacità troppo a lungo sottovalutate, ma anche l’indignazione e l’impegno civico che sono alla base del suo impegno politico dopo l’attentato di Paolo Borsellino testimoniano insieme che il Sud con il suo dramma civile e la “presenza forte” delle mafie è in testa all’agenda del riscatto del Paese. In questo contesto il reddito di cittadinanza acquista, nel bene e nel male, la centralità che deve avere. Primaria per dare sostegno a chi ha bisogno, che sono i due terzi dei percettori, fortemente negativa come matrice di una cultura assistenzialista che toglie il futuro all’altro terzo e, cioè, a chi ha il diritto di avere un lavoro serio e di potersi qualificare per farlo al meglio, non di essere sostentato con un’elemosina peraltro a termine.

Diciamo che ci sono stati complessivamente tre livelli di discorso. Il primo che appartiene alla retorica della politica alta dove ci sono la fermezza delle critiche a Putin, la condanna senza se e senza ma del fascismo e delle sue leggi razziali, il valore delle donne in tutti i campi per una grande democrazia e il senso della storia che appartiene alla sua premiership. Il secondo livello riguarda la politica a uso interno, gli alleati Salvini e Berlusconi e l’opposto pentastellato Conte, dove si fa chiarezza sul reddito di cittadinanza e si rimettono negli armadi flat tax, regalie varie e interventi sulle pensioni che producono deficit e, quindi, nuovo debito. Tutto quello che non ci possiamo permettere e di cui non dobbiamo neppure parlare per evitare che torni a salire il rischio politico italiano. C’è, infine, un terzo livello di prospettiva che riguarda l’idea di futuro di dieci anni per sé e per il Paese, ma che ha dentro il messaggio rivoluzionario di volere essere lei a cominciare in Italia e in Europa un’altra epoca in cui la Destra viene compiutamente accettata all’interno del sistema. Ha fatto il discorso la Meloni di una conservazione oculata che non ha intenzione di rompere le scatole in casa e fuori. Non ha rotto con i mercati, non ha rotto con le istituzioni, non ha rotto con l’Europa. Era naturale, direi obbligato, in un momento di estrema delicatezza come è quello attuale. Dove il governo della Repubblica italiana sarà giudicato dalla capacità di attuare gli investimenti e di fare o rendere esecutive le riforme vitali della giustizia come della pubblica amministrazione, della medicina sul territorio come della concorrenza, della scuola e dell’università come della ricerca.

Questo è il vero macigno che oggi è sulle spalle della Meloni e dei suoi compagni di viaggio. Non se lo dimentichi neppure per un istante perché l’alternativa alla rotta del realismo e della responsabilità nella politica economica e nella politica estera, che è fatta di azioni concrete che producono effetti giorno dopo giorno, è esattamente quella del Cigno nero italiano del 2011. Sulle sue spalle ci sono l’onore e la responsabilità della politica italiana che si gioca tutto di fronte al mondo e alla comunità nazionale. Dovrebbero capirlo anche le opposizioni che riunite possono provare a contare qualcosa, ma divise valgono niente. Sarebbe già molto se le critiche sacrosante fossero sottratte al mantra inutile della demagogia e si concentrassero sulle cose da fare e su quelle da non fare. Perché questo pretende il bene del Paese nei giorni terribili della guerra nel cuore dell’Europa e del grande conflitto di civiltà tra mondo autocratico e mondo occidentale che ne è derivato. Sono tutti avvisati.


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