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L’ad Eni Claudio Descalzi

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L’azione di Enrico Mattei fu ispirata da Giorgio La Pira e da Amintore Fanfani che intuirono già allora che il futuro non era il colonialismo, ma la valorizzazione dei nuovi popoli ai quali andava offerto un ruolo di parità. Siamo oggi davanti a un progetto del governo Meloni ambizioso, ma fattibile perché la geografia e il nuovo ordine mondiale giocano in squadra con il Mezzogiorno d’Italia. Si impone un nuovo rapporto con la Germania non solo come destinataria di flussi energetici che sostituiscono quelli di petrolio e gas russi, ma anche come interlocutore privilegiato del nostro Paese. Le lancette della storia ci dicono che è importante rafforzare i legami con la Germania senza avere la pretesa di sostituirci ai francesi, ma sapendo che proprio la dimensione mediterranea dell’Europa spinge tedeschi e francesi ad avere un rapporto diverso con l’Italia.

Con tutte le cautele dei paragoni storici costitutivamente zoppicanti potremmo dire che Giorgia Meloni segue oggi le orme di Giorgio La Pira e Antonio Tajani quelle di Amintore Fanfani. Essendo molto cambiato il quadro geopolitico di allora si può arrivare a dire che l’azione di Claudio Descalzi, come capo dell’Eni, si muova oggi anch’essa nel solco tracciato da Enrico Mattei nel Dopoguerra senza correre nessuno dei rischi che portarono allora all’attentato di un capitano di industria italiano visionario.

Lo spirito nuovo dei nuovi tempi dettato dal quadro geopolitico determinato dalla guerra mondiale delle materie prime scatenata con l’invasione della Russia in Ucraina rende straordinariamente attuale la scelta strategica di un modello di cooperazione non predatoria tra le due sponde del Mediterraneo che colloca geograficamente il Mezzogiorno d’Italia come hub energetico (e non solo) dell’intera Europa. L’accordo a tutto campo con l’Algeria coinvolge gli approvvigionamenti energetici, le fonti rinnovabili e l’industria del futuro, ma incorpora il disegno strategico obbligato dalla storia recente di un’Italia porta di ingresso del Mediterraneo in Europa e guida dei processi energetico-industriali e di sviluppo del capitale umano globale. L’intelligenza politica dell’azione di Giorgia Meloni anche questa volta procede sulla strada storicamente tracciata dall’Eni e ripresa dopo un lungo sonno della ragione dal governo Draghi. Che è quella di porsi non come partner di un fornitore e approfittatore, oggi dell’Algeria domani di tutti gli altri paesi dell’Africa del nord, ma come un alleato che persegue nei suoi obiettivi il loro sviluppo nei loro territori e, allo stesso tempo, il raggiungimento di un interesse strategico che non è solo italiano ma europeo.

Un interesse che può essere perseguito con risorse all’altezza della sfida grazie alla scelta politica di accorpare in un solo ministro, Raffaele Fitto, tutte le competenze europee e grazie al pragmatismo e alla capacità di relazione con le interlocuzioni europee dello stesso ministro. Perché dal combinato disposto della scelta politica e della forza con cui si sta portando avanti questa doppia azione può trovare spazio dentro il Piano nazionale di ripresa e di resilienza un capitolo energetico fatto di infrastrutture strategiche e di fonti rinnovabili anche nel Mezzogiorno che sono il carico di di base del grande hub dell’Europa, ma anche dell’indipendenza energetica italiana che è la maggiore garanzia della crescita della nostra manifattura. Per tutte queste ragioni ci sentiamo di dire che la missione di due giorni di Giorgia Meloni in Algeria e la visita del vice premier e ministro degli Esteri, Antoni Tajani, in Egitto fanno rivivere oggi proprio la politica economica di Mattei del Dopoguerra.

È sacrosanto che questo suo nome non sia solo quello del giardino di Algeri, ma anche il nome del progetto strategico di politica estera del governo Meloni. Che cosa ci insegna la storia? Che l’azione di Mattei dell’epoca fu ispirata da Giorgio La Pira e da Amintore Fanfani che intuirono già allora che il futuro non era il colonialismo, ma la valorizzazione dei nuovi popoli ai quali andava offerto un ruolo di parità. Per capirci, già nel febbraio del ’57 Ettore Bernabei, allora direttore del Popolo, quotidiano della Dc, annotava nel suo diario che Mattei aveva chiesto consigli a La Pira su un’offerta che gli avevano fatto i francesi di una joint venture per il petrolio in Algeria e che La Pira gli aveva consigliato di lasciare perdere aspettando la fine del colonialismo francese in quel Paese. Siamo oggi dentro lo spirito e la visione dei dialoghi fiorentini per la civiltà. Mattei era il risvolto economico di questo approccio profetico di La Pira. Accolse il consiglio del sindaco buono e pagò con la vita la scelta di avere portato l’Eni fuori dal colonialismo economico occidentale che vedeva in prima fila, oltre ai francesi, gli americani. In questi fatti economici, prima ancora che politici, che appartengono alla storia, ci sono il tratto costitutivo dell’italiana Eni opposto a quello della francese Total e la credibilità di un rapporto intenzionalmente non predatorio nei confronti delle realtà economiche e politiche della sponda Sud del Mediterraneo.

In questo senso è bello riscontrare oggi che quello spirito originario dei La Pira, dei Fanfani, dei Mattei rivive in una stagione di conservatorismo di governo che sceglie Algeri come prima tappa nelle relazioni diplomatiche e commerciali con il continente del futuro che è diventato oggi l’Africa. La complessità dei passaggi di stabilizzazione della Libia come del Mali, per non parlare della crisi del Sahel, rendono questo disegno un cammino pieno di insidie e investono il ruolo che l’Italia dovrà sempre più avere al centro della nuova Europa federale con un’idea geopolitica di noi stessi meno vaga di quella che ha avuto negli ultimi decenni. Siamo davanti a un progetto sicuramente ambizioso, ma fattibile perché la geografia e il nuovo ordine mondiale giocano in squadra con il Mezzogiorno d’Italia. Si impone un nuovo rapporto con la Germania non solo come destinataria definiva di flussi energetici che sostituiscono a tempi record quelli di petrolio e gas russi, ma anche come interlocutore privilegiato del nostro Paese. Le lancette della storia ci dicono che è importante rafforzare i legami con la Germania senza avere la pretesa di sostituirci ai francesi, ma sapendo che proprio la dimensione mediterranea dell’Europa spinge tedeschi e francesi ad avere un rapporto diverso con l’Italia. Un rapporto che rifletta non più solo il rispetto per una leadership politica legata all’esperienza di capo del governo della moneta come fu quella di Draghi salvatore dell’euro, ma proprio di un capo di governo italiano espressione della sovranità popolare che guida senza strafare e in uno spirito di servizio con il grande giacimento di materie prime vecchie e nuove qual è l’Africa un percorso comune di futuro.

Questo giornale non si stancherà mai di ripetere che all’intelligenza delle cose delle politica e dei fatti dell’economia – rigassificatori, rete elettrica, molto molto rinnovabili e futuro – bisognerà preliminarmente affiancare un grande investimento sul capitale umano per costruire la nuova classe dirigente del nuovo Mediterraneo. La proposta di Romani Prodi di unire negli studi le grandi università delle due sponde del Mediterraneo e la necessità di affiancare al progetto ogni livello di indirizzi tecnico-scientifici, la tecnologia e il capitale della ricerca sono la pre-condizione perché la storia e la geografia non combattano a vuoto per il Mezzogiorno d’Italia e l’Europa. Perché la partita è la stessa. Si vince o si perde insieme. Avere la Germania e la Francia dalla nostra parte ci permette di sperare che non siano solo sogni. Proviamoci con lucidità di visione e pragmatismo di azione. Possiamo farcela. Noi almeno ci crediamo.


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