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Sergio Mattarella

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Mattarella fa i conti con la trasformazione storica. Due guerre e le risposte alle grandi questioni: gli oligarchi e la democrazia, l’intelligenza artificiale, le centrali informatiche e gli spazi aerei fuori controllo, i divari crescenti di diseguaglianze, lo strapotere di un pezzo della finanza e i colossi Usa che pagano le tasse in paradisi fiscali. In Europa vince il bilancino elettorale degli interessi nazionali. Il solito compromesso per cui ti presenti come vincitore su qualcosina in casa e tutti insieme fanno un passo indietro. Nessuno di loro è convinto che solo un’Europa unita può affrontare questo passaggio difficilissimo. È un esempio di cecità delle classi dirigenti europee.

Sergio Mattarella davanti alle alte cariche dello Stato ha fatto un grande discorso che possono fare solo i grandi statisti. Abbiamo ascoltato dal Presidente della Repubblica italiana una disamina tanto inusuale quanto ficcante sulla transizione storica che stiamo vivendo e sul significato che questa transizione esercita sulla società nel suo complesso senza mai cedere all’angoscia e facendo uscire tutti per una volta dall’umiliazione di un dibattito pubblico bottegaio che condanna in partenza il nostro Paese.

In questo discorso si avverte il senso della storia che fa i conti con le due grandi guerre e l’esigenza di fornire risposte condivise e competenti, non chiacchiere, alle grandi questioni vere che sono gli oligarchi e la democrazia in pericolo, l’intelligenza artificiale, lo strapotere delle centrali informatiche e le guerre finanziarie sugli spazi aerei, i divari crescenti di diseguaglianze, l’altro strapotere che è quello di un pezzo della finanza e la questione etica dei colossi statunitensi che (non) pagano le tasse in paradisi fiscali. Per farla breve, siamo davanti a un ordine mondiale nuovo dove troppe cose si accavallano pericolosamente e dove la risposta di una nuova governance all’altezza dei tempi non è più eludibile.

Davanti a un discorso di così ampio respiro e allo stesso tempo così concreto, ci troviamo a misurarci con il problema fondamentale che è l’esasperazione inconcludente del tema europeo. Sembrano aspettare tutti Godot capi di Stato e di governo e, con rarissime eccezioni, mostrano di attendere non si sa bene neppure che cosa. Un discorso vero sull’Europa del futuro, esclusi Draghi e Mattarella e in modo diverso Macron, non lo fa nessuno. Sembra che i vertici europei siano quasi indifferenti al tema che è invece cruciale. Si può dire, certo, che è materia del Parlamento, ma non è così e loro hanno il dovere di dare una prospettiva all’Europa con la testa e con i comportamenti. Sono tutti prigionieri dei loro populismi interni e compiono un errore grave di sottovalutazione della delicatezza del momento.

Se vogliono che i cittadini vadano a votare per le elezioni europee devono dimostrare che l’Europa c’è. Purtroppo l’accordo di ieri sul nuovo patto europeo di stabilità e crescita conferma la gabbia tedesca di sempre, con le sue regolette su deficit e debito addirittura più stringenti, anche se lo affianca con maggiore flessibilità sugli investimenti strategici. Esprime un compromesso tra le esigenze di clausole di garanzia da parte dei Paesi del Nord e l’esigenza di quelli del Sud a partire da Italia e Francia di preservare margini di flessibilità per potere continuare a fare investimenti strategici compresi quelli del Pnrr.

A nostro avviso, anche se i dettagli andranno verificati sulle scadenze temporali, mettere paletti all’1,5% per il deficit e di un punto annuo di riduzione del debito sono scelte che non facilitano l’Italia nello svolgimento delle azioni necessarie per continuare a crescere e rendere sostenibile il nostro pesante debito pubblico. Su una scelta strategica della Commissione europea di procedere con il massimo di flessibilità e piani a medio termine da costruire su misura Paese per Paese, si è mantenuto il ceppo iniziale e lo si è ricoperto di vincoli nuovi di finanza pubblica e di “trattamento speciale” per riforme e investimenti che non potranno non produrre ulteriori complicazioni.

Diciamocela tutta. È l’esatto contrario o, se non altro, una versione quanto mena rattrappita e contraddittoria dell’Europa del futuro che serve. È il frutto avvelenato del populismo tedesco della destra e dei liberali. D’altro canto, lo stesso leader spagnolo Sanchez è prigioniero dell’accordo con i separatisti catalani e ha messo in campo la ministra dell’economia, Nadia Calviño, che pur di ottenere la presidenza della Bei, si è mossa sempre dentro il sentiero tedesco rivelando non poche doti di mediazione ma in un contesto ahinoi strutturalmente sbagliato.

La discussione sul nuovo patto europeo di stabilità e crescita, anche all’interno della Commissione, era nata per garantire una flessibilità costituiva delle nuove regole di armonizzazione e politiche espansive generali per la crescita nel solco solidale degli eurobond dell’Europa post pandemica. Alla fine, anche se non siamo ancora all’ultima puntata, è avvenuto qualcosa di molto diverso. Si è ragionato con il bilancino elettorale degli interessi nazionali.

È venuto fuori il solito compromesso. Del tipo “noi ti diamo le armi per presentarti come vincitrice o vincitore su questo o quel punto davanti alla tua opinione pubblica” e noi tutti insieme facciamo senza dirlo un grosso passo indietro rispetto agli Stati Uniti d’Europa. Che significa politica di bilancio comune, grande capacità di fare investimenti comuni, politica estera e di difesa comuni. Nessuno di loro è davvero convinto che solo un’Europa unita può affrontare questo passaggio difficilissimo e ognuno vuole tenere le mani libere per cavarsela da solo. Questo è l’esempio massimo di cecità delle classi dirigenti di governo europee. Ci sono alcune eccezioni, lo abbiamo già detto, e andrebbero ascoltate.

La prima riguarda parzialmente Macron che è il più libero perché non può essere rieletto. Non ha, dunque, bisogno di inseguire consensi. Ancora di più lo è Mattarella che ragiona da statista, come ha fatto anche ieri nel discorso davanti alle alte autorità dello Stato, e non smette sempre di insistere sull’Europa federale e di sottolineare che o l’Europa fa questo salto o regredisce al livello di un mercato comune. Prima ancora a dirlo più volte e anche qui con sempre maggiore forza è stato Mario Draghi. Avendo avuto l’esperienza storica da capo del governo della moneta dell’Europa e avendo anche salvato l’euro, questo problema lo ha toccato con mano prima degli altri e ha, quindi, capito in anticipo che non si fanno passi avanti se l’Europa non diventa una forza politica unitaria.

Siamo, purtroppo, viceversa troppo spesso davanti alla modalità tipica di gestione dei condomini da parte dei vertici europei e questo ci porta fuori dalla storia più o meno consapevolmente. Anche la riposta, che tutti si affrettano a definire storica, sul tema dei migranti, scatta su uno dei temi più agitati dai populisti. Prova ovviamente a dare una risposta nuova, ma finisce comunque con il dare ragione ai populisti che ne hanno fatto il problema dei problemi.


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