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Il presidente del Consiglio, Mario Draghi

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Avviso ai naviganti della politichetta di casa nostra di Destra e di Sinistra. L’apertura del Financial Times sul programma da 221 miliardi di euro di Mario Draghi per risollevare l’economia italiana ha già prodotto un risultato. I fondi anglosassoni hanno deliberato di investire in Italia. Spostando i capitali dalla Spagna. Sanno fare bene i loro calcoli. Lo fanno perché sono convinti che con Draghi l’Italia si salverà e sanno quali sono i settori dove si giocherà e si vincerà la partita del futuro. Si fidano di lui e sono anche convinti che Draghi avrà un ruolo cruciale in Europa perché vincendo la sfida italiana segnerà il punto massimo di credibilità del Next Generation Eu (Ngeu). Carlo Messina, l’uomo che ha portato Intesa San Paolo sul podio del credito europeo, batte un colpo da 400 miliardi e aggiunge: “Credo che nessun altro in Europa possa svolgere questa missione meglio di Mario Draghi. I partiti la smettano di litigare sulla governance”. Che è peraltro l’unica garanzia che il Sud possa attuare un investimento colossale superiore a quello degli anni d’oro della Cassa del Mezzogiorno. Il resto sono chiacchiere

AVVISO ai naviganti della politichetta di casa nostra di Destra e di Sinistra. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano non è stato ancora dibattuto in Consiglio dei ministri. La discussione avverrà oggi, poi ci sarà il dibattito in Parlamento e alla fine della settimana prossima tornerà in Consiglio dei ministri per il varo definitivo e la presentazione in tempo utile all’esame di Bruxelles.

Nel frattempo l’apertura del Financial Times sul programma da 221 miliardi di euro di Mario Draghi per risollevare l’economia italiana ha già prodotto un risultato. I fondi anglosassoni, inglesi e americani, robetta da 100 miliardi a testa di dotazione, hanno deliberato di investire in Italia nella fibra, nella transizione ecologica, nell’alta velocità ferroviaria, nel fintech e così via. Spostano i capitali dalla Spagna. I capi di queste istituzioni finanziarie sono persone che sanno fare bene i loro calcoli. Hanno già deliberato di investire in Italia perché sono convinti che con Draghi l’Italia si salverà e sanno quali sono i settori dove si giocherà e si vincerà la partita del futuro. Si fidano di lui e sono anche convinti che Draghi avrà un ruolo cruciale in Europa. Perché esprime la leadership personale europea più riconosciuta nel mondo. Perché vincendo la sfida italiana segnerà il punto massimo di credibilità dell’iniziativa europea del Next Generation Eu (Ngeu) che è il dato più concreto di una nuova Europa tutta da costruire.

Questi sono i fatti. Carlo Messina, l’uomo che ha portato Intesa San Paolo sul podio del credito europeo e una reputazione internazionale da primo attore, batte un colpo da 400 miliardi a sostegno di imprese e famiglie perché “ho fiducia nelle potenzialità di questo Paese e fiducia che il governo Draghi possa accelerare il passaggio a una condizione di forte crescita attraverso il Piano nazionale di ripresa. Credo che nessun altro in Europa possa svolgere questa missione meglio di Mario Draghi”. Questo ha detto il banchiere che è a capo “dell’infrastruttura finanziaria” del Paese e ha un’idea forte del Mezzogiorno che “se fosse uno Stato a sé sarebbe tra i primi dieci in Europa”.

Questi sono i fatti che appartengono alla credibilità degli uomini e che la politica deve fare propri in modo da essere ricambiata con il rispetto e l’ascolto da chi ha pro tempore la responsabilità di governo innescando un circolo virtuoso che vuole tirare fuori il Paese da una crisi strutturale ventennale che fa paura. Questo è il dividendo politico che le forze del governo di unità nazionale potranno incassare se non ostacoleranno con le loro quotidiane polemichette da botteguccia elettorale il processo decisionale di cambiamento.

Senza che nulla sia stato ufficialmente presentato in Europa è già deliberato che tutto il mondo anglosassone vorrà fare le gare per la fibra in Italia e per molto altro. Senza fare spacconerie ma solo sano realismo, la previsione di crescita nel 2026 del 3,6% di “prodotto interno lordo più alto rispetto all’andamento tendenziale” potrà essere di certo moltiplicata dalla mobilitazione produttiva di nuovi capitali che la credibilità italiana riconquistata con i fatti sarà in grado di attrarre.

Potrà realizzare ritmi di crescita e di riequilibrio territoriale tra Nord e Sud del Paese che ricordano quelli degli anni d’oro del miracolo economico italiano a patto che la macchina pubblica degli investimenti sia messa nelle condizioni di operare esattamente come è scritto che si vuole fare nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Questa è la forza del volano lanciato da Draghi.

Questa è la sfida strategica del Paese che si presenta all’appuntamento della rinascita con temperature e infezioni da malato terminale. Perché bisogna avere il coraggio di dire che nel ventennio del federalismo dell’irresponsabilità (1999-2019) il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento e che nello stesso periodo Germania, Francia e Spagna hanno avuto aumenti rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6 per cento. Che, nello stesso arco di tempo, il numero di persone sotto la soglia di povertà è salito in Italia dal 3,3 al 7,7 per cento raggiungendo nel 2020 la cifra record del 9,4 per cento.

Si è arrivati a un tale punto di declino strutturale da allargare il solco delle diseguaglianze fino a ridurre il reddito pro capite di un cittadino del Mezzogiorno a poco più della metà di quello dei cittadini del resto del Paese. D’altro canto gli investimenti pubblici hanno camminato a un ritmo pari alla metà della media europea, ma la quota pubblica ha toccato nel 2019 il minimo storico che è pari al 12,7% del totale. Che è quasi niente per diventare nulla tout court (senza quasi) nelle regioni meridionali che una irresponsabile politica economica che va sotto il nome di federalismo dei ricchi ha addirittura abolito. Da questo burrone e dalla piena consapevolezza di dovere cambiare tutto parte il Piano nazionale di ripresa e di resilienza italiano firmato Draghi che è prima di ogni altra cosa un piano di riforme.

Questo è il punto massimo, dolosamente sottovalutato nel dibattito pubblico italiano, dominato purtroppo dalla fame dei circensi della politica italiana e dei loro numerosi clientes e dall’oppio dei 221 miliardi. Che se cambiamo davvero possono essere anche oltre 250 solo tra fondi pubblici europei e italiani ma molto molto di più per il livello di capitali privati internazionali e italiani che possono parallelamente mobilitare.

C’è una riforma di “contesto” che viene prima di tutte e che è il cuore della nuova questione meridionale italiana perché solo se si riusciranno a ridurre i tempi delle fasi autorizzative, appaltanti e di esecuzione delle opere i cento e passa miliardi che pioveranno sulle teste del Mezzogiorno potranno essere spesi e, soprattutto, potranno essere spesi bene. Viceversa si assisterà a uno di quei miracoli che i nuovi capipopolo meridionali, che si esercitano con il pallottoliere dei miliardi per chiederne sempre di più, scopriranno a loro spese. Si renderanno conto che la pioggia non esiste e che sulla loro testa non arriverà neppure una goccia d’acqua.

Servono la semplificazione della legislazione e una governance chiara con una struttura tecnica di coordinamento centrale presso il Ministero dell’Economia (Mef) e una supervisione politica del piano affidata a un comitato istituito presso la Presidenza del Consiglio a cui partecipano i ministri competenti. Bisogna che qui si esercitino i poteri di richiamo dello Stato ogni volta che appaltante e appaltato non rispettino i tempi concordati e, ancora di più, bisogna che qui si sciolgano i nodi intricatissimi della fase autorizzativa per ridurre i tempi da trenta mesi a massimo sessanta giorni uscendo dal formalismo e garantendo più trasparenza e più efficienza. Inserendo nel comitato tutti i soggetti dalla cultura all’ambiente fino all’Anac e alla Corte dei conti detentori di poteri legittimi di valutazione dell’opera e dei suoi progetti di massima e esecutivi.

Qui ci devono essere anche i certificatori perché le erogazioni del Recovery plan avvengono a saldo di realizzazione dei singoli stati di avanzamento e non ci si confronterà più con l’ingegnere amico ma con gli omini grigi dello staff del vicepresidente della Commissione europea Dombrovskis. Qui ci devono essere task force pronte a agire di supporto per le amministrazioni comunali e regionali del Mezzogiorno quando è evidente che si va a sbattere agendo prima che il misfatto si compia, non dopo, evitando di ripetere le solite litanie che accompagnano spesso anche la scoperta delle debolezze progettuali. Saranno decisive le riforme della pubblica amministrazione e, soprattutto, la possibilità di reclutare meritocraticamente i livelli alti e medi nelle nuove assunzioni.

Saranno di vitale importanza la riforma della giustizia civile che sfrutti la digitalizzazione e tagli i tempi e una legge annuale della concorrenza che deve fare entrare il nostro Paese tra quelli con una solida cultura di mercato rispettati nel mondo. Dalla transizione ecologica che è il segno distintivo della scommessa europea al digitale con la banda larga ultra veloce. Da scuola e ricerca, alle infrastrutture per una mobilità sostenibile fino a inclusione/coesione e salute. Nelle sei missioni scelte di cui le prime due con quote vincolate rispettivamente del 30 e del 20 per cento dell’intero programma (quasi 100 miliardi cumulativi) c’è il profilo di un Paese diverso e il segno di una coerenza meridionalista degli interventi che non si vedevano da almeno mezzo secolo.

Con le priorità strategiche nella scuola e nella ricerca (14,63 miliardi pari al 45,7% del totale), nelle infrastrutture per la mobilità sostenibile (14,53 miliardi pari al 45,7% del totale) e nella banda larga ultra veloce (il 48% del totale) che delineano il profilo di un progetto integrato con la nuova logistica e la nuova portualità che si prefiggono di ridare all’Italia il suo mercato potenziale più promettente di crescita e all’Europa tramite l’Italia la leadership nel Mediterraneo.

Questo è il senso di una sfida che grazie alla coerenza meridionalista di Draghi e di Franco e a un lavoro ostinato della ministra Carfagna ha permesso di raddoppiare la quota netta del Piano di ripresa e resilienza portandola al 40% del totale (82 miliardi) ma destinata a crescere ancora in modo significativo con investimenti ulteriori in asili nido e buoni progetti. Nel decennio d’oro della Cassa 51/61 si investirono nel Mezzogiorno l’equivalente di 150 miliardi di euro di oggi. In questo caso, da qui al 2026, si vuole investire di più e lo si vuole fare bene.

La scelta indovinata è stata quella di adottare il modello francese che consente di aggiungere i 40 miliardi minimo del Fondo complementare (10 sono solo della Salerno-Reggio Calabria) che avrà le stesse regole del Pnrr ma non ne avrà i vincoli temporali di fine opera. Se si pensa che su scuola e lavoro sono stati impegnati per il Sud anche il 64,3% delle risorse di React Eu pari a 8,359 miliardi e sul fondo di sviluppo e coesione sono stati restituiti al Mezzogiorno 16 miliardi pari all’80% si capisce al volo che non si scherza più. Ci permettiamo di suggerire alla ministra Carfagna di fare una battaglia perché il Ponte sullo Stretto di cui tutto è già stato progettato fino al dettaglio venga interamente finanziato dal fondo di sviluppo e coesione.

Tutti gli investimenti massicci come non mai destinati all’alta velocità ferroviaria nel Mezzogiorno e alla grande portualità e alla grande logistica via Napoli, Bari, Taranto, Gioia Tauro e Pozzallo avrebbero il loro moltiplicatore esponenziale e la ripartenza del Sud anche un suo simbolo riconosciuto nel mondo. Non molli perché le resistenze pentastellate e di una parte del Pd si scioglieranno come neve al sole. Il sogno del new deal italiano ha bisogno di superare l’esame roccioso delle riforme ma anche delle sue bandiere che allargano i mercati e aprono i cuori.


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