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«I nodi vengono sempre al pettine». Può sembrare un’affermazione banale, ma riassume in maniera piuttosto consona la situazione di potenziale stallo che si sta creando attorno al meccanismo che dovrebbe garantire l’arrivo dei primi finanziamenti del Recovery Fund. In attesa del Consiglio europeo di metà ottobre, unica sede nella quale potrà sbrogliarsi l’attuale intricata matassa, la complessa situazione si presta ad un certo numero di considerazioni.

Prima di tutto un accenno alla dimensione fattuale. La presidenza di turno dell’Ue, quella tedesca, ha dovuto attingere a tutte le sue capacità di mediazione e si è spinta sino all’utilizzo del voto a maggioranza qualificata, per permettere alla Conferenza degli ambasciatori di andare oltre l’impasse. Quale la materia del contendere? Una qualche forma di condizionalità nell’erogazione dei sussidi europei direttamente connessa al rispetto dello stato di diritto all’interno dei singoli contesti nazionali. Rispetto alla proposta strong, da parte della Commissione, la mediazione tedesca (sostenuta anche da Francia, Italia e Spagna) si è concretizzata da un lato in un approccio soft (blocco dell’erogazione solo in caso di “violazioni già conclamate”) e dall’altro in una risposta comunque in ultima istanza intergovernativa.

Lasciare la possibilità del cosiddetto “freno di emergenza” in Consiglio, significa riportare tutto nelle mani dei Capi di Stato e di governo, nel chiuso dei loro summit, sul modello del luglio scorso. A questa situazione intricata si aggiunge poi la legittima volontà del Parlamento europeo di dire la sua sui temi della democrazia liberale, nel momento in cui il via libera al bilancio 2021-2027 è ancora appeso al voto di Strasburgo e tutti sanno quanto proprio il nuovo bilancio sia indispensabile come garanzia per l’imminente esposizione della Commissione sui mercati.

Questo, in maniera impressionistica, il quadro. La prima considerazione è di natura storico-politica e riguarda le radici profonde e, ci si può spingere a dire, identitarie del processo d’integrazione europea. La democrazia liberale, la tutela dei diritti civili, politici e sociali sono alla base del “modello europeo” e sono soprattutto la conditio sine qua non per appartenere al “Club europeo”. Niente accesso se tali principi inalienabili non sono rispettati. Come si spiegherebbe altrimenti il lungo cammino percorso da Grecia, Spagna e Portogallo nel corso degli anni Settanta e Ottanta? Come si spiegherebbe altrimenti la sospensione dei negoziati di adesione della Turchia, prima di tutto arenatisi su queste garanzie “minime quanto indispensabili”?

È evidente che, su questo rapido richiamo storico, aleggia il “fantasma di Banco” del grande allargamento ai Paesi dell’ex blocco comunista del 2004-2007. Lungi dal voler riaprire in questa sede l’annoso dibattito sull’impossibilità storica di impedire quell’allargamento, chi scrive è convinto che con il 2004-2007 si sia sanata una ferita storica troppo a lungo perpetrata sull’altare dello scontro tra i due blocchi. Non ci si può però nascondere dietro ad un dito. Gli attuali Orban, Kaczynski, Duda, ecc.. non sono altro che il prodotto di sistemi politico-istituzionali cresciuti senza una corretta e completa evoluzione proprio nella direzione del consolidamento della democrazia liberale.

In definitiva, e senza voler indagare in questa sede le ragioni profonde, è indubbio che l’Europa veicolo di promozione della democrazia ha ottenuto risultati di altissimo livello sul fronte delle ex dittature mediterranee, non altrettanto si può dire per gli ex Paesi del blocco comunista. Chi si rese protagonista dell’accelerazione, probabilmente eccessiva, di quell’allargamento ha una parte di responsabilità se oggi esiste una profonda frattura che corre sul crinale est/ovest dell’Ue.

Una seconda considerazione deve essere fatta a proposito del tentativo di riproporre in maniera un po’ stantia l’immagine dei cosiddetti Paesi “frugali” che, guidati dall’orco Rutte, sfrutterebbero strumentalmente le proteste di Polonia e Ungheria sui temi dello stato di diritto, per portare a casa il successo non ottenuto al vertice di Bruxelles del luglio scorso. Che il Primo ministro olandese sia un abile giocatore d’azzardo può anche essere vero, ma minimizzare in questo modo la legittima indignazione olandese, (ma non solo, pensiamo alla Finlandia) sui temi del rispetto dei diritti civili, significa ragionare usando categorie grossolane e dimenticare sfumature storico-culturali importanti.

La tradizione olandese così debitrice del profondo legame con quella britannica, ma anche la centralità del senso civico per i Paesi scandinavi, sono principi “non negoziabili” e che mantengono un certo impatto sulle possibilità di carriera politica dei leader nazionali di questi Paesi, elemento non trascurabile quando essi si muovono in ambito europeo. Insomma una dose di strumentalità è sicuramente presente nell’operato dei “frugali” a guida Rutte, ma fermarsi solo a questo livello impoverisce l’analisi, la rende deterministica e solo in parte a fuoco.

Infine questa ennesima crisi interna ai meccanismi decisionali dell’Ue non può che riportare il discorso sul “peccato originale”. La Germania ha, per ora, garantito quella che in termini bismarckiani si può definire un’“onesta mediazione”. L’impressione è che per sciogliere il nodo gordiano occorrerà attendere il Consiglio europeo di metà ottobre e, considerata l’importanza della posta in palio (in fondo sussidi e prestiti, sono comunque necessari a tutti i Paesi membri), si arriverà ad un accordo. Ma appunto questa sarebbe, e probabilmente sarà, la dimostrazione che l’Ue a 27 ha come unico possibile funzionamento quello intergovernativo.

La risposta muscolare, seppur tardiva, alla pandemia e anche la logica che sembra largamente accettata di una forma embrionale di mutualizzazione del debito, non devono essere lette come la vittoria postuma del funzionalismo, quanto come la dimostrazione che di fronte alle nuove sfide servirebbe un’Ue più coesa e, azzardiamo, più culturalmente ed ideologicamente omogenea. È pensabile che ciò avvenga a 27?

Per ipotizzare spazi anche soltanto abbozzati di Europa federale (si tratti di politica estera, di difesa o industriale) serve concretizzare una politica dei cerchi concentrici o delle differenti velocità con l’ambizione di portare alle estreme conseguenze ciò che in realtà, almeno in potenza, già esiste ad esempio con la moneta unica. Esistono alternative? Sono già tutte sul terreno. Vertici sempre più estenuanti, chiusi soltanto grazie all’ennesima onesta, almeno quanto furba, mediazione tedesca.


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