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Boris Johnson

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È difficile capire cosa stia andando per il verso giusto nella lotta della Gran Bretagna di Boris Johnson nella lotta contro il COVID. Probabilmente niente o quasi, se non l’inizio della campagna vaccinale, che, lanciata con una ventina di giorni di anticipo rispetto a quella dell’Unione europea (che partirà il 27 dicembre, dopo l’autorizzazione di ieri al vaccino Pfizer), ha già permesso di iniettare la prima dose a oltre mezzo milione di persone, si è purtroppo scontrata con la terribile mutazione resa nota domenica.

È un fatto che, per grandi linee, le cose sono andate peggio nei Paesi a guida più populista (vedi USA, Brasile) e meglio in quelli guidati da leader donne (vedi la Finlandia o la Nuova Zelanda e pure in Germania).

È indubbio che Johnson appartenga alla prima categoria, e come quel tipo di leader ha puntato da subito sulla “immunità di gregge”, lasciando che il virus facesse strage tra i suoi concittadini. E continuando a gestire la situazione mostrando certezze che non poteva avere.

Dopo poche settimane, per fortuna dei britannici, anche lui è stato contagiato dal Coronavirus. Per fortuna (sua) ne è uscito bene ed ha iniziato a prendere le prime misure di contenimento della pandemia, con un ritardo oramai drammatico rispetto alla diffusione e rispetto agli altri Paesi dell’Europa (se escludiamo la follia svedese, che merita un discorso a parte, dopo essersi reso il paese del Nord Europa con il maggior numero di contagiati ed il più grave tracollo economico).

Nel tempo poi la Gran Bretagna, pur restando ai vertici di ogni classifica, per morti o contagiati, era riuscita a contenere l’impennata delle prime settimane. Almeno fino a una settimana fa, quando dal Sud-Est dell’Inghilterra è partita questa nuova mutazione che sembra abbia una contagiosità fino al 70 per cento superiore alla forma più diffusa di COVID.

E il governo che ha fatto? Ha stabilito che la situazione “è fuori controllo”, a quanto dice il ministro della Sanità Matt Hancock. Non è un’affermazione qualsiasi, è forse un’ammissione di colpa, quando si scopre che la mutazione è nota da almeno una settimana, mentre solo sabato scorso Johnson ha deciso una nuova stretta ai contatti tra le persone, dopo l’esecutivo aveva sostenuto in Parlamento mercoledì che «sarebbe inumano annullare il Natale con i parenti». L’incertezza è massima, lamentano dall’opposizione.

Ed ora, a meno di dieci giorni dalla fine del periodo transitorio post-Brexit che è al momento per lo meno molto incerta nei modi, si trova con i blocchi agli spostamenti verso il Continente, in una guerra diplomatica con la Francia che, almeno fino alla serata di ieri, impediva il passaggio delle merci provenienti dall’Isola, con cittadini bloccati all’estero e tanti cittadini non britannici (tra i quali gli italiani sono tra i più numerosi) che non possono tornare a casa. Come misura d’emergenza sono state bloccate da domenica scorsa le merci, come pure le componenti necessarie all’industria, compresi i prodotti alimentari in provenienza dal resto d’Europa, ed anche le forniture di vaccino Pfizer, che è prodotto in Belgio.

A Bruxelles il centro emergenza per la lotta al Covid ha deciso di lavorare perché le frontiere dell’area Schengen (della quale Londra non fa parte) restino aperte, ma ieri sera la discussione era fitta, piena di notizie contraddittorie, su una ipotesi di bando completo ai viaggi da e per la Gran Bretagna, che possono essere però emessi solo dai singoli Stati.

Se questo dovesse avvenire e se non si arriverà ad un accordo per i rapporti tra UE e Regno Unito dopo il 31 dicembre (che sono incagliati da mesi sui diritti di pesca, in particolare per le resistenze proprio della Francia), per Londra il 2021 non si presenterà come il primo degli anni della “radiosa crescita” che Johnson, brexiter della prima ora, ha promesso ai suoi concittadini durante la campagna elettorale ed anche dopo. Non è neanche più certo, ha ammesso ieri sera il premier, che le scuole possano riaprire a gennaio come previsto. Certo, danni economici ce ne saranno anche per i Paesi dell’Unione, in particolare per Francia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, ma saranno di certo nel complesso enormemente meno dolorosi di quelli per l’economia britannica.

Un sassolino dalla scarpa se l’è tolto il commissario europeo francese Thierry Breton, sottolineando che se il Regno Unito non fosse uscito dall’Unione avrebbe avuto alcune decine di miliardi in più per combattere la pandemia, attraverso il Recovery Fund. «Quello che sta accadendo in Gran Bretagna è una tragedia – ha detto il responsabile del Mercato Interno -, e questa Brexit è una tragedia, lo vediamo ogni giorno sempre di più».

Naturalmente «è una decisione che rispettiamo perché il popolo britannico è sovrano – ha aggiunto Breton -. Ma va considerato che se la Gran Bretagna fosse rimasta (nell’UE, ndr) come noi avremmo voluto, avrebbe oggi, come tutti gli altri paesi europei, tra i 30 e i 50 miliardi di euro di aiuti grazie al fondo Next Generation EU istituito dalla Commissione».

E forse sono d’accordo anche tanti britannici, se si può prestar fede agli ultimi sondaggi secondo i quali cala la quota dei cittadini pronti ad affrontare il futuro senza un accordo con l’Unione mentre crescono coloro che un’intesa la ritengono necessaria e chiedono un prolungamento della fase transitoria per poter negoziare un accordo.


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