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Vladimir Putin

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All’alba del 24 febbraio è iniziata l’offensiva su larga scala russa in territorio ucraino. Era stata annunciata dal Pentagono, ma il suo preavviso era stato accolto da molti – anche da me – con un certo scetticismo. Ero persuaso che il presidente russo stesse seguendo in Ucraina la “strategia del carciofo”. Che cioè avesse deciso di compiere un piccolo passo per volta, in modo da sfruttare le divisioni esistenti fra gli Usa e l’Europa e, soprattutto, all’interno di quest’ultima, in modo da evitare sanzioni, embarghi e ritorsioni molto pesanti.

LA LINEA STRATEGICA

Le sanzioni provocano danni non solo a chi le riceve, ma anche a chi le fa. In un’Alleanza, gli interessi e i costi delle sanzioni sono diversi fra Stato e Stato. Pertanto, qualsiasi decisione al riguardo è difficile, è al ribasso ed è sempre divisiva. Tende a ridurne la portata, fino ad annullarne gli effetti che, comunque non sono mai immediati, ma a medio-lungo termine, mentre i loro costi sono anche immediati.

Putin ha seguito una logica strategica del tutto differente. Verosimilmente, era stata concepita prima del riconoscimento delle due repubbliche separatiste del Donbass e dell’annuncio di inviare forze russe per difenderle da una possibile controffensiva ucraina o, per usare le sue parole, per mantenere la pace minacciata dai “nazisti” ucraini che, per Putin, dominerebbero una nazione inesistente, perché senza storia né identità.

Al massimo, pensavo che un’azione russa si limitasse alla conquista della parte del Donbass ancora controllata dall’Ucraina – con lo strategico porto di Mariupol, necessario per l’esportazione del carbone e dell’acciaio dell’intero Oblast – e forse del porto di Odessa. Con la conquista dei due porti, Putin avrebbe escluso l’Ucraina dall’accesso al mare e l’avrebbe di fatto condizionata anche politicamente.

Con tali limitazioni, non avrebbe del tutto chiusa la porta a negoziati, volti a modificare l’architettura della sicurezza europea, imposta dall’Occidente dopo la sua vittoria sull’Urss e che Putin considera particolarmente penalizzanti per la Russia. Dopo l’attacco all’Ucraina, qualora la Russia conseguisse un successo, essi non sarebbero più possibili per l’Occidente. Se, invece, la guerra si trasformasse in un Vietnam per le forze russe, i negoziati diventerebbero disastrosi per Mosca, a cui verrebbero imposte condizioni umilianti.

MOSSA A SORPRESA

Mi sbagliavo in entrambi i casi. Putin ha forzato il gioco e sta procedendo con un’offensiva su larga scala in Ucraina. Punta direttamente su Odessa, Kiev e Kharvik. Sulla prima, da Sudest, con forze corazzate ammassate in Crimea e che muovono lungo la costa del Mar Nero. Sul secondo, da Nord, anche dalla Bielorussia. Sul terzo, da Est, dalle repubbliche secessioniste. L’obiettivo finale è di far cadere il governo Zelensky, sostituendolo con un “Quisling” filorusso.

Come da manuale strategico, l’avanzata a terra è preceduta e accompagnata dalla trasformazione della superiorità aerea, di cui dispone, in una completa supremazia, con il sistematico bombardamento degli aeroporti anche civili e il loro attacco con elicotteri armati e truppe elitrasportate.

Ha esortato i soldati ucraini a disertare. È stato brutale nelle minacce volte a scoraggiare eventuali interferenze straniere; ha ricordato, come se ce ne fosse bisogno, che la Russia dispone di un gran numero di armi nucleari e che è pronta d usarle. Ora le forze ucraine reagiscono e mantengono la loro coesione. Per quanto tempo lo potranno fare, è impossibile dire.

Ma perché questo irrigidimento e questa accelerazione da parte di Putin? Uno dei motivi è stata sicuramente l’eccessiva cautela delle sanzioni occidentali. Sia gli Usa che la Ue hanno giudicato che la priorità per essi consisteva nel mantenimento dell’unità dell’Occidente, a costo di ridurre l’efficacia delle sanzioni.

Secondo, condizionati dalle loro opinioni pubbliche – che non solo non vogliono “morire per Kiev”, ma neppure abbassare il riscaldamento per gli ucraini – hanno scelto la via della gradualità del sistema sanzionatorio, riducendolo quasi a una barzelletta e nascondendosi dietro la foglia di fico che essa voleva evitare l’escalation di un conflitto che andava risolto con la diplomazia. Purtroppo, senza l’esistenza della forza economica o militare e la volontà di usarla quest’ultima si riduce a semplici chiacchiere.

SERVONO SANZIONI BRUTALI

Come ha brutalmente osservato Sergei Lavrov, il ministro degli esteri russo, quella occidentale non è stata la “diplomazia tradizionale”. Lo sarebbe stata solo se dietro i sorrisi diplomatici, venisse nascosta una bomba a mano e l’interlocutore sapesse che potrebbe esplodere. Allora non s’incanterebbe dietro le belle parole o i buoni sorbetti. Nel caso di Putin ha influito certamente anche il suo disprezzo o, almeno, il senso di superiorità che prova per il “chiacchierone” Occidente.

Anche per questo le nuove sanzioni devono essere veramente brutali. In caso contrario non servirebbero a nulla, se non a farci canzonare da Mosca. Per essere tali, debbono riguardare anche l’energia. Inoltre, accanto alle sanzioni e agli embarghi tecnologici “primari” devono essere previsti anche quelli “secondari” o “extraterritoriali. Solo con essi, i “furbi” avranno minori incentivi per cercare di essere tali. Anche Xi Jinping penserà cinque volte prima di aiutare l’amico Putin a resistere alle sanzioni e agli embarghi occidentali. Rischierebbe di pagarla molto cara.


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