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Un gasdotto

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LA “BATTAGLIA del grano” venne proclamata da Mussolini e adottata in una seduta notturna della Camera dei deputati del 20 giugno 1925. Allora si trattava di rendere l’Italia autosufficiente in questa fondamentale derrata. E oggi, quando il prezzo del grano è andato ad aumentare più di quello del petrolio a partire dall’invasione dell’Ucraina dovremmo fare un’altra ‘battaglia del grano’, ricorrendo ai due ex-‘granai d’Italia’, la Puglia e la Sicilia?

Il problema è che – afferma la Coldiretti e riporta il quotidiano «La Sicilia» – “negli ultimi vent’anni il prezzo del grano è stato talmente irrisorio che molti agricoltori hanno anche smesso di produrlo. Rispetto al 2020 non si è seminato in centinaia di ettari e negli ultimi 15 anni sono migliaia quelli non più coltivati a cereali. Tanto che nel primo trimestre del 2021 la Sicilia ha importato cereali dall’Ucraina per oltre 1,8 milioni di euro”.

Ma, più in generale, ha senso cercare di rendere l’Italia autosufficiente nella produzione di grano? Certamente, il grano è un bene essenziale, ma non è necessario perseguire l’autarchia in tutti i beni essenziali, purché gli approvvigionamenti siano diversificati e diversificabili. La situazione è diversa per l’energia, che è un bene altrettanto (se non più) essenziale, ma per il quale gli approvvigionamenti erano troppo concentrati sulla Russia. Il grano è essenziale ma fonti alternative si possono trovare in tempi relativamente brevi: gli alti prezzi rendono conveniente tornare a produrre in Italia, e in ogni caso ci sono altri produttori nel mondo, dagli Usa al Canada all’Australia…, anche se bisogna ricordare che i produttori di grano, se sono contenti degli alti prezzi, non sono contenti del fatto che due grossi input del processo di produzione – energia e fertilizzanti, sono diventati anch’essi molto più cari. In ogni caso, per un po’ i prezzi del grano saliranno, ma poi la magia del mercato – l’offerta aumenta se aumenta la convenienza – li riporterà a livelli ragionevoli.

Nel frattempo la soluzione non è quella della regina Maria Antonietta (il famoso “se manca il pane, che mangino brioche”): bisogna rassegnarsi agli alti prezzi, o mettersi a dieta riducendo pane e pasta, il che in ogni caso fa bene alla salute e al girovita. Tutto questo mette in discussione la globalizzazione? Molti credono che la globalizzazione sia un fenomeno recente, ma non è così. Già fra il 1870 e il 1913 un’economia mondiale sorprendentemente integrata era andata emergendo, resa possibile dai progressi tecnologici di quel tempo: navi a vapore, ferrovie, telegrafo… E John Maynard Keynes, in un aureo libretto: “The Economic Consequences of the Peace”, pubblicato nel 1919, ricorda «quello straordinario episodio nel progresso dell’uomo che venne a finire con il 1914. L’abitante di Londra – scrive Keynes – poteva ordinare per telefono, sorseggiando a letto il tè della mattina, qualsiasi prodotto del globo intero, in qualsiasi quantità desiderasse, e confidare in una consegna ragionevolmente sollecita, sull’uscio della propria casa; poteva con gli stessi mezzi e negli stessi tempi investire i propri soldi nelle risorse naturali e nelle nuove intraprese in ogni angolo del mondo, e condividerne senza sforzi o disturbi gli eventuali frutti; oppure poteva decidere di legare la sua fortuna a quella dei titoli emessi da Stati o municipalità in ogni continente… Poteva avventurarsi all’estero, usando trasporti non cari e confortevoli, verso qualsiasi Paese e qualsiasi clima, senza passaporti o altre formalità. Poteva mandare un incaricato alla banca per ritirare qualsiasi quantità di metalli preziosi di cui avesse bisogno, e poteva poi andare all’estero, senza conoscenza di altre religioni, altre lingue o altri costumi, portando nelle tasche oro coniato, e sarebbe stato molto sorpreso e annoiato alla minima interferenza. E infine – ed è questa la cosa più importante – considerava questa situazione come qualcosa di normale, certo e permanente, e qualsiasi deviazione da questo stato di cose come un’aberrazione e uno scandalo».

Ma, come sappiamo, questa prima ondata di globalizzazione non durò. La Grande guerra, la Grande depressione, l’autarchia, il totalitarismo e la Seconda guerra mondiale posero fine a quell’esperimento della storia: ci vollero sessant’anni perché un semplice indicatore della globalizzazione – la quota di export nel Pil mondiale – riguadagnasse i livelli del 1913. Nella globalizzazione 1.0 – quella di più di un secolo fa – si trattava si scambi più semplici di quelli attuali – scambi fra prodotti manufatti e prodotti primari.

La globalizzazione più recente (chiamiamola 2.0) è invece caratterizzata da complesse catene di offerta che travalicano i continenti con scambi intensi di semilavorati, scambi permessi dai progressi della telematica e della logistica (container). Questa globalizzazione è a rischio, dopo la guerra in Europa? Certamente, gli scambi recenti sono stati distorti e ridotti, ma più nel senso della globalizzazione 1.0 che nel senso della 2.0. Una considerazione più rilevante – geopolitica più che economica – è quella suggerita da Paul Krugman sul New York Times: si diceva che gli scambi promuovano la pace, ed è questa la ragione per cui fu creato il Mercato comune, in un continente insanguinato da due guerre mondiali. Ma quel che è successo in Russia smentisce questa speranza: la strategia di portare la Russia in una rete di commerci fra le nazioni, sperando che l’interdipendenza attenui l’aggressività, è chiaramente fallita. Ma, se non è certo che gli scambi promuovano la pace, è certo che la pace promuove gli scambi, conclude Krugman. E in ogni caso, bisogna ricordare che tanti Paesi emergenti a basso costo del lavoro, dal Sud-Est asiatico all’America latina all’Africa, hanno bisogno della globalizzazione come del pane (e tanto più quando il pane rincara…).

L’altra lezione da tenere a mente è che globalizzare è bello, ma bisogna stare attenti a non legarsi troppo a regimi autoritari, come Russia e Cina. La democrazia è, come diceva Churchill, “il peggiore di tutti i sistemi, fatta eccezione per tutti gli altri”, e il suo merito è quello di poter cambiare i governanti per vie, appunto, democratiche. Ma nei regimi autoritari non esistono i famosi ‘checks and balances’, come si è visto nella solitaria follia putiniana dell’invasione dell’Ucraina.


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