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Il 2023 si è aperto, per le imprese di tutto il mondo, all’ombra degli effetti della pandemia da Covid-19 e della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. Ma non si tratta certo delle prime crisi che hanno colpito in maniera drammatica il commercio internazionale nel nuovo millennio. Le catene globali del valore, sebbene progressivamente più snelle ed efficienti, sono sempre più spesso soggette a brusche interruzioni causate da shock inaspettati che colpiscono diversi settori contemporaneamente.

Nello scenario contemporaneo, sia la concentrazione della rete di fornitura nella medesima area geografica, sia la sua eccessiva diversificazione possono rappresentare elementi di forte vulnerabilità nel caso di prodotti strategici. La Commissione europea ha rilevato che 34 prodotti considerati strategici nell’Ue (ad esempio materie prime e prodotti chimici e farmaceutici) sono estremamente esposti alle interruzioni della catena di approvvigionamento, dato il loro basso potenziale di diversificazione e sostituzione all’interno dell’Ue.

Nell’ultimo ventennio le industrie più esposte sono state quelle dell’hi-tech (apparecchiature per la comunicazione, computer, semiconduttori e componentistica) e quelle caratterizzate da alta intensità di manodopera (tra cui il tessile-abbigliamento). 

Pandemia e guerra non hanno fatto altro che evidenziare ancor di più la vulnerabilità delle catene e i limiti di un approccio basato su canali di fornitura globali sbilanciate verso lo sfruttamento dei differenziali di costo nella produzione. Durante la fase di contrazione della pandemia, le ricadute legate ad esse hanno causato un calo delle importazioni e delle esportazioni del 25% a livello mondiale. Nello specifico, la mancanza di autonomia di alcuni dei Paesi più poveri in diversi ambiti strategici (sanità ma anche sicurezza energetica e alimentare) ha portato a guardare alle relazioni commerciali dando ancor più rilievo al rischio geopolitico che costituisce oggi un fattore decisivo nelle scelte di disinvestimento delle aziende.

Per fronteggiare la fragilità dei sistemi di approvvigionamento e le incertezze legate alle crisi politiche che scuotono parte del mondo, molte imprese e governi hanno intrapreso vie alternative alla delocalizzazione per garantire maggiore prossimità nelle forniture necessarie per il soddisfacimento dei bisogni locali.

L’Unione europea, nel 2013, con la pubblicazione  del Consiglio europeo Conclusioni sulla politica comune di sicurezza e difesa  aveva dato avvio a una riflessione sulla necessità di una “autonomia strategica” e nel 2022, con la Dichiarazione di Versailles ha sottolineato la necessità di orientare gli sforzi verso una maggiore integrazione tra gli Stati nei settori della difesa, dell’approvvigionamento energetico e dell’economia, ben consapevoli che affidabilità e stabilità delle catene di fornitura sono fondamentali per ottenere un vantaggio competitivo sui mercati internazionali. Le aziende (soprattutto manifatturiere), dal canto loro, si sono progressivamente adattate agli shock esogeni adottando strategie, di riavvicinamento ai Paesi di provenienza.

Dall’inizio degli anni ’90, secondo l’Istat,  oltre 21mila aziende italiane hanno abbandonato il Paese, spostando le filiere – o parte di queste – in altri Paesi, con 1,5 milioni di lavoratori e investimenti di 125 miliardi di euro. A spingere le aziende a delocalizzare sono state motivazioni legate, in particolare, all’incremento dei salari della manodopera nei Paesi dove precedentemente il lavoro era a bassissimo costo e all’impatto dei processi di automazione e robotizzazione della produzione. Ora si assiste al fenomeno inverso, detto in inglese reshoring.

Un’inversione di cui l’Italia detiene il primato nell’Unione europea (con il 15% come evidenziato dall’infografica, seguita dalla Francia con il 14%, il Regno Unito vanta il17% ma dal 2016 non fa più parte dell’UE) ed è seconda al mondo dietro agli Stati Uniti. Sono 121 le nostre aziende che, secondo il report dell’UniClub More BackReshoring, pool di ricerca universitario che dal 1997 si occupa di quantificare e analizzare il fenomeno del reshoring, hanno deciso di riportare a casa le proprie produzioni. Tra queste, imprese della moda come Tods, Diadora, Ferragamo e Prada, ma anche dell’elettronica del manifatturiero e del gastronomico: Beghelli, Fiamm, Argo, Generale Conserve, Global Garden Products, Polti Spa e, da ultimo, Bianchi, che ha riportato la produzione di bici da Taiwan a Treviglio. Un dato che rimane ancora irrisorio rispetto a quello relativo alle aziende in partenza, ma che lascia spazio ad una considerazione che potrebbe risultare cruciale per il futuro economico del nostro Paese: abbiamo ancora qualcosa da offrire.

La delocalizzazione, tuttavia, è spesso di difficile, se non impossibile, attuazione proprio per ragioni connesse alla macchinosa riorganizzazione della catena logistica che la strategia stessa comporta. Per cui, spesso, le aziende diversificano le catene di fornitura rivolgendosi a soluzioni meno radicali come localizzarli nel territorio di Paesi amici o vicini (in inglese friendshoring o nearshoring).

Ma commerciare e investire solo con Paesi “amici” o “vicini” potrebbe portare alla eccessiva frammentazione dei processi produttivi. In particolare, strategie di reshoring su larga scala potrebbero finire per vanificare il loro stesso scopo peggiorando la sicurezza degli approvvigionamenti anziché migliorarla in quanto le catene di approvvigionamento concentrate a livello locale sarebbero più esposte agli shock localizzati.

Ritorno nel Paese di partenza dell’azienda, o spostarsi in Paesi amici o vicini costituiscono indubbiamente preziose opportunità che le aziende sono sempre più insistentemente invitate a valutare. Tuttavia, ciò che ancora manca è un’adeguata e visibile attenzione al profilo degli effetti doganali connessi a tali forme di riorganizzazione delle catene di fornitura. 

La rilocalizzazione in Paesi amici,  l’effetto doganale principale è quello connesso all’opportunità di sfruttare l’origine preferenziale dei prodotti acquistati proprio grazie agli accordi stipulati dall’Unione europea con più di 72 Paesi partner (Paesi “amici” quasi per definizione). Ricollocare la produzione in un Paese con cui è in vigore un accordo di libero scambio può costituire una significativa opportunità per l’azienda grazie all’abbattimento dei dazi, incrementando così gli scambi. Va inoltre considerata, in base agli accordi, la possibilità che i prodotti scambiati con il Paese partner non vengano assoggettati, se non in casi particolari, a misure di politica commerciale.

Adottando, invece, una strategia di rilocalizzazione in Paese limitrofi, vi sarà un significativo impatto, tra gli altri, sul costo di nolo e assicurazione, destinato ad abbassarsi in maniera significativa ed essendo meno esposto ai turbamenti nell’economia del trasporto internazionale, se ne vedranno gli effetti diretti sul valore in dogana che include proprio questi costi, oltreché sulla tempestività delle consegne.

L’origine non preferenziale del prodotto (Made in) ai sensi delle regole generali fissate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, potrebbe cambiare in caso rilocalizzazione dell’azienda in Paese amici e vicini e, di conseguenza, consentire agli operatori economici di sfruttare l’effetto Made in. Un’azienda italiana che, ad esempio, operasse la rilocalizzazione avrebbe la possibilità di fregiarsi del “Made in Italy” senza dubbi interpretativi circa il luogo in cui è avvenuta l’ultima lavorazione sostanziale, andando così a stimolare la componente affettivo-emozionale legata ai prodotti nazionali che una strategia di reshoring può comportare. Ricollocare la produzione, poi, in un Paese non colpito da dazi antidumping, misure compensative e di sorveglianza, può agevolare notevolmente l’attività di una impresa: in caso di reshoring, il problema delle misure di politica commerciale semplicemente non si porrebbe (se non per le materie prime e i componenti che, inevitabilmente, si potrebbe dover continuare ad importare); nei casi invece di localizzazione in Paesi amici o vicini  l’eventualità di misure di politica commerciale adottate nei confronti di Paesi amici o vicini è, comunque, meno probabile.


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