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Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron

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Senza retorica occorre avere il coraggio di affermare ciò che risulta evidente dopo la due giorni di Consiglio europeo sulla guerra russo-ucraina: il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue nei confronti di Mosca è il classico esempio della montagna che ha prodotto il topolino.

Lunghi negoziati, rischio di rottura tra i Paesi membri e anche tra i vertici di Consiglio e Commissione e tutto ciò per cosa? Per giungere ad incrementare la lista di banche ma anche di personalità (forse la più nota in questo caso è il patriarca russo Kirill) sottoposte a sanzioni, ma soprattutto per arrivare ad una possibile indipendenza dal petrolio (attenzione bene, non dal gas) russo a partire dal 2023 (per la maggior parte dei Paesi) o tra diciotto mesi (su tutti il caso dell’Ungheria).

Dunque, sconfitta dell’Ue e vittoria di Viktor Orban? In realtà il leader ungherese non è altro che il capro espiatorio, peraltro ben felice di esserlo. Budapest ha svolto il ruolo di parafulmine per certificare un malumore e dei distinguo ben più diffusi. L’idea che si arrivasse ad una “pausa sostanziale” nelle sanzioni accomunava non poche capitali europee alla vigilia del vertice. Ecco per quale motivo il “topolino” prodotto il 31 maggio è stato presentato come l’ennesimo passo in avanti dell’Ue nella complessa congiuntura del conflitto russo-ucraino.

Detto questo, è alla successiva domanda che occorre provare a fornire una risposta: si poteva fare altrimenti? In maniera altrettanto onesta occorre ammettere che, considerate le scelte compiute nello spazio del processo di integrazione dalla fine dell’epoca bipolare ad oggi, è praticamente impensabile poter dispiegare una mole superiore e soprattutto più efficace di sanzioni anti-russe. E per comprendere questa “impotenza europea” con radici che risalgono ad oltre trent’anni fa occorre guardare in una direzione ben precisa, ovvero verso Berlino.

Sin dall’ottobre del 1990 la Germania non ha smesso di inanellare successi. La casa comune tedesca frutto della chiusura del contenzioso simbolo della Guerra fredda (ovvero la divisione delle due Germanie) si è consolidata grazie al tetto europeo. Da Berlino si è esercitata una oggettiva leadership tedesca sull’Ue. Il passaggio all’euro e soprattutto i noti parametri di Maastricht, ma anche un chiaro approccio economicista alle relazioni internazionali, per non parlare del pacifismo dominato dalla delega delle questioni di sicurezza all’alleato statunitense (vedi Kosovo solo per fare un esempio), hanno contraddistinto le tre grandi leadership tedesche di Helmuth Kohl, Gerard Schroder e Angela Merkel.

In particolare Merkel, con i suoi oltre sedici anni di dominio incontrastato a livello continentale, è riuscita a traslare dal piano tedesco a quello europeo il suo opportunismo, misto a celato qualunquismo, in tutte le principali sfide continentali. Ha presentato sé stessa, il suo Paese e la sua leadership continentale come contemporaneamente atlantica, ma legata a doppio filo con Mosca e con Pechino; ha imposto l’austerità “lacrime e sangue” alla Grecia, per poi accettare e intestarsi l’iniziativa del recovery fund in epoca di pandemia; ha infine mostrato il volto accogliente della Germania e dell’Europa nella crisi dei migranti, per poi cedere a Erdogan le chiavi della rotta balcanica (insieme ad una serie di assegni continentali da alcuni miliardi di euro).

Ebbene la crisi ucraina è giunta con l’effetto di un uragano sulle scelte tedesche ma soprattutto sulla leadership teutonica dell’Unione europea. L’invasione di Putin, la reazione ucraina e il sostegno statunitense ed europeo, ma soprattutto il prolungarsi del conflitto, hanno stracciato il velo dell’ipocrisia. La triplice dipendenza energetica (dalla Russia), economica (dalla Cina) e in termini di sicurezza (dagli Stati Uniti) sono sotto gli occhi di tutti. È tempo di scelte politiche audaci e queste devono giungere prima e innanzitutto da Berlino.

Il richiamo alla necessità che entri in gioco il motore franco-tedesco è opportuno ma appare al momento scarsamente efficace. A Bruxelles, nella recente due giorni, la locomotiva Berlino-Parigi ha operato utilizzando il freno più che l’acceleratore. Lo sbiadito cancelliere socialdemocratico ha finito per celare le difficoltà politiche della sua composita maggioranza riproponendo la linea Merkel. Emmanuel Macron, fresco di una rielezione in realtà non esaltante, ha assecondato l’alleato d’oltre Reno, considerato il delicato passaggio elettorale delle legislative previste per il 12-19 giugno. Solo a fine giugno sapremo se da Parigi giungerà una scossa salutare che dovrebbe per forza di cose caratterizzarsi per una cesura reale (e non soltanto di facciata) rispetto ad oltre un trentennio di leadership tedesca dell’Unione.

Osservando con ulteriore attenzione l’ultimo vertice europeo è difficile fare professione di ottimismo. E questo essenzialmente perché a Bruxelles, nelle stesse stanze in cui ci si divideva su sanzioni ed energia, circolava uno spettro, piombato poi con i dati Eurostat: un livello sempre più insostenibile di inflazione. 8,1% come media Ue, che diventa addirittura 8,7% a Berlino. E non occorre essere degli storici dell’economia per ricordare cosa questo significhi per l’immaginario teutonico (lo spettro di Weimar!). Alla dipendenza strategica dall’energia russa finirà per aggiungersi un redde rationem sull’ipotesi di rendere sistemica (e non congiunturale) la mutualizzazione del debito sovrano? Dal tavolo delle sanzioni alla Russia, a quello dello scontro tra frugali e spendaccioni il passo appare breve.

La crisi russo-ucraina, proprio perché ha riportato la guerra al centro dell’Europa, ha ripulito il cielo continentale da ogni nuvola ed illusione, stracciando il velo di ogni tipo di ipocrisia, riportandoci all’essenziale. E soprattutto ha ribadito che il problema dell’Ue è solo parzialmente e tangenzialmente di natura decisionale e poco servirà nel futuro più o meno immediato riaprire il vaso di Pandora della riforma dei Trattati.

Il nocciolo della questione è politico e riguarda la leadership dell’Ue da Maastricht in poi. Il nanismo strategico dell’Ue è direttamente legato alle scelte di dipendenza militare, energetica, industriale e tecnologica o meglio dalle non scelte in questi ambiti che si sono perpetrate nell’ultimo trentennio. Mettere mano a questo nodo gordiano è fondamentale se si vuole realmente invertire la rotta, consapevoli che il percorso sarà lungo e irto di ostacoli. L’alternativa? È sotto gli occhi di tutti.


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